Gallipolino di origine e maratoneta, Franco Della Ducata ci racconta: “Quando ero lassù, sono stato in contatto con Dio“.
Prima di oggi, la montagna la guardavo dal basso e la credevo irraggiungibile, quasi impossibile arrivarci. “Che sensazioni si hanno a stare lassù?”, pensavo, “forse il cielo è più trasparente e mi basta sorridere per parlare con le nuvole”. In realtà, ho sempre sognato di parlare con loro e l’ho sempre vista bella, la montagna. Ma questo, ovviamente, prima di oggi. Oggi però ho avuto l’onore di dialogare con Franco Della Ducata che, la montagna, l’ha vista davvero bene. Non una montagna qualsiasi, bensì l’Everest. Anzi, ci è salito raggiungendo il suo campo base e gli è bastato allungare la mano per toccare le nubi.
“Qualcosa di incredibile”, ho pensato. Ma non è stata solo questa sua avventura a esser stata incredibile. E’ stato soprattutto lui che, con una vita fatta di sogni e passioni, ha continuato a lottare per quello che aveva nella testa e per i suoi inesauribili valori che, da oggi, sento anche un po’ i miei.
Gallipolino di origine, è partito per questa missione e l’ha poi raccontata nel libro “Da Gallipoli al Monte Everest”, una sorta di diario di viaggio in cui racconta storie ma soprattutto si racconta per quello che è diventato dopo tutto quello.
Senza svelare nulla, vi lascio leggere quello che ha avuto da dirci.
Da Gallipoli al Monte Everest… Racconti così l’inizio della tua avventura. Com’è stato il suo inizio?
L’importanza di questa storia sta nel fatto che una persona, sempre vissuta nel mare, un giorno decide di realizzare questo sogno di scalare una montagna. Un sogno, questo, che avevo sin da ragazzo.
Così sono giunto a Katmandu (Nepal), in cui mi sono ritrovato con il gruppo di persone con cui ho poi realizzato quel percorso. Ognuno di loro aveva già scalato altre montagne ed era esperto di alpinismo. <<E tu, quale esperienza hai avuto?>>, mi hanno chiesto poi. <<Nessuno>>, ho risposto io. Ne sono rimasti tutti stupiti. Ma questo era un sogno che avevo sempre voluto realizzare e avevo deciso perlomeno di tentarci.
Abbiamo preso poi un aereo da turismo – un aereo molto celebre nell’ambiente dell’alpinismo – che atterra nell’Aeroporto di Lukla. Questo è l’aeroporto più pericoloso al mondo, trovandosi a 2000 metri di altezza e avendo una pista davvero molto piccola. Arrivati a Lukla, ci hanno raggiunto gli Sherpa, ossia una popolazione tipica del Nepal, che si sono occupati di portare i nostri bagagli.
Per te cosa è la montagna?
Salire su una montagna è cercare di ritrovare Dio. Quando sono arrivato infatti al campo base dell’Everest, il mio pensiero è stato proprio lui. Il mio desiderio sarebbe quello di alzare la mia mano e toccare la sua al di là del cielo. Sul libro ho infatti scritto che Dio mi è apparso davvero.
<< Bravo, sei arrivato. Hai fatto una grande impresa>>, mi ha detto.
<<Sì, sono stato veramente forte a realizzare qualcosa che tutti scommettevano che non sarei riuscito a realizzare>>, gli ho risposto.
<<Perché? Tu pensi di aver fatto tutto da solo? No caro, io ti ho fatto arrivare qui. Cerca di essere meno presuntuoso, perché solo io posso fare arrivare le persone dove vogliono e come vogliono>>.
La montagna dunque è questo per me: una conquista dell’universo, il cercare di proiettarsi verso un mondo che noi ormai abbiamo smarrito. Ero infatti in estasi: non mi sembrava vero che potessi essere in quel posto. Eravamo anche isolati dai social, dato che non c’era connessione, e questo ci ha permesso di essere in un mondo fantastico, in un mondo che non esiste più e che ho potuto sperimentare attraverso questa mia esperienza. Non c’erano rumori o persone che urlano, ma mi sono sentito me stesso. Davvero solo con me stesso. Solamente la sera, ci riunivamo e parlavamo tra noi, attorno a una lanterna a petrolio e con la Luna che ci guardava, per condividere quello che avevamo vissuto e quello che avremmo vissuto il giorno successivo.
Ci sono state delle disavventure durante il percorso?
Con questa esperienza, ho avuto tantissime avventure bellissime. Ma sì, ci sono state anche delle disavventure. Il giorno prima di prendere l’aereo del ritorno, sono stato nella città santa di Katmandu, ossia Pashupatinath, in cui realizzano la cremazione dei corpi. E’ un posto speciale e ho avuto delle meravigliose sensazioni. Qui ho però incontrato una sacerdotessa, che ha voluto farmi un rito allacciandomi ai polsi dei pietrini colorati e fissandomi un segno sulla fronte con la ceralacca. Da quel momento in poi, tutto è andato malissimo. Quando siamo infatti arrivati nell’aeroporto di Katmandu, prima di ritornare in Italia, ho perduto la videocamera go-pro e la mia valigia, in cui c’era tutto quello che avevo vissuto in quel viaggio. E’ stata una grandissima delusione.
Cosa ti ha spinto a raccontare la tua storia all’interno del libro “Da Gallipoli al Monte Everest”? La penna ti ha guidato o sei stato tu a guidare lei?
Tappa dopo tappa, mentre ero lì, con una penna ho scritto su un taccuino quello che stava accadendo. Quando sono ritornato a Gallipoli, i miei parenti erano molto preoccupati perché ero dimagrito e stavo davvero male. Ho avuto la broncopolmonite e sono stato un mese a letto con la febbre e, mentre ero a casa, ho deciso di trascrivere tutto su un pc. Da lì è nato il libro. E’ un diario di viaggio, in cui ci sono riflessioni di carattere letterario, essendo anche appassionato di letteratura russa, ed episodi legati alla mia attività di maratoneta.
Parlaci dunque della tua seconda passione: la corsa. Come descriveresti le tue emozioni, mentre corri? Sono le stesse di quando hai scalato l’Everest o sono differenti?
Sono completamente differenti. Ho partecipato alle maratone più importanti del mondo: sono stato a Stoccolma, Londra, Parigi, Barcellona e altri. La corsa richiede preparazione, sacrificio, allenamento e, alla fine di tutto, si prova una sensazione bellissima. Ma forse l’emozione che ho avvertito quando ho raggiunto il campo base dell’Everest è stata un’emozione davvero unica e imparagonabile.
Hai progetti per il futuro o altre “mete” da voler raggiungere?
Avevo altri progetti, ma sono tutti rimandati a causa del Covid.
A giugno, sarei dovuto andare a Mosca e San Pietroburgo, assieme a un gruppo di amici, per visitare i luoghi degli scrittori russi, di cui sono davvero appassionato. A luglio, sarei dovuto partire per il Pakistan con l’obiettivo di raggiungere il campo base del K2. Nel mese di ottobre, avrei dovuto realizzare in Nepal una scalata su un’altra montagna vicino l’Everest. Ma questi progetti sono purtroppo rimandati a data da destinarsi.
Cosa c’è in te e cosa ti porti di quella montagna e di quella specifica avventura? Cosa ti è rimasto e come sei ora?
Adesso sento di aver fatto qualcosa di importante nella mia vita, che non è solo lavoro. Ci sono anche tappe che servono ad arricchire l’anima, ed io penso di aver realizzato tutto queste cose che hanno contribuito a rendermi ricco e distaccato da tutto il resto.
Ho scritto nel libro una frase celebre dello scrittore americano Walt Whitman:
“Quando staremo per morire, succederanno cose incredibili. Prima di esalare l’ultimo respiro, passeremo nella nostra mente tutta la nostra vita, e ci domanderemo: “Ma io sono vissuto?”.
Per molti non è facile darsi una risposta, soprattutto per quelle persone che trascorrono la loro vita molto lentamente.
Solo chi avrà cercato di realizzare i suoi sogni potrà invece rispondere:
“Si, sono vissuto”
E morirà assolutamente felice.
“E noi, stiamo vivendo?”
Ho pensato poi.
Non c’è altro da raggiungere: il senso della vita è racchiuso nelle parole di Franco Della Ducata. E in me è racchiusa invece un po’ più di fiducia nelle persone, accompagnata da questa irrefrenabile voglia di realizzare sogni e passioni.
Un grazie sento di doverlo a lui, per essersi reso disponibile nel raccontare la sua storia e per averci deliziato dei suoi pensieri mai remoti, ma sempre recenti.
E’ proprio vero: se si vuole conoscere Dio, la montagna è il posto giusto. Ma anche quaggiù, Dio c’è ed è nascosto in ognuno di noi.
Basta saperlo cercare.
Stefania Meneghella