Cornell Woolrich (1903-1968) e François Truffaut (1932-1984) hanno una sintonia così forte da ritrovarsi connessi da due sponde opposte dell’Atlantico: entrambi prendono da infanzie tempestose il loro carburante tematico e la spinta narrativa. Discorso non dissimile può essere fatto pure per il regista francese e l’idolo britannico Hitchcock (1899-1980) che, ignaro, fa quasi da go-between stilistico tra le due figure citate all’inizio.
Nel mondo infantile tutti e tre trovano un ricettacolo per i turbamenti dei protagonisti, le premesse per parabole esistenziali che, se non in bilico tra follia e sanità mentale, accarezzano la violenza, l’abiezione ed il crimine. Prima di quel film così incompreso che fu La mia droga si chiama Julie (1969) con la Deneuve, Truffaut aveva già utilizzato un soggetto di Woolrich per il suo film La sposa in nero (1968).
Aveva trovato tra le pagine di The Bride Wore Black una protagonista non lontana dalla Catherine di Jules e Jim (1962), ugualmente assoluta nell’andare jusqu’au bout delle relazioni, pronta a distruggere ciò che ostacola la realizzazione della sua vita in senso fattivo quanto emotivo. Si può ben applicare a Catherine e alla sposa in nero Julie questa frase di Balzac: L’amant qui n’est pas tout n’est rien.
Nel film del ’68 però, non è l’amante a distruggere il rapporto: egli è semmai la vittima di una violenza sciocca e tragica, di cui vanno ricercati i colpevoli. La morte dello sposo poco dopo il matrimonio, sulle stesse scale della chiesa, a causa di un colpo di fucile partito dalla mano di un goliarda, scatena in Julie Kohler (un nome un programma) il desiderio di vendetta.
Da sposa casta, da donna affettuosa e fedele che non ha mai sognato né amato altro uomo se non il suo sposo, con cui è peraltro cresciuta, Julie si trasforma in Erinni. Asciugata la trama da dettagli troppo realistici, Truffaut narra la vendetta in 5 atti della protagonista con i colori asciutti e metafisici della fotografia di Raoul Coutard.
L’assolutismo ed il rigore della sposa si scontrano con la piccolezza degli uomini coinvolti nell’assassinio, come se questa “fiaba per adulti” (Paola Malanga) si caricasse dei ricordi delle divinità del mito. Non può non riecheggiare ai classicisti, giusto per fare un esempio, la punizione di Niobe, madre orgogliosa ma dalla bocca troppo larga per i gusti del dio Apollo.
Ogni mossa di Julie è fatta per colpire le vittime nel loro punto debole, nel ritorcerglielo contro: le scene delle messe a morte sono minuziose ed inquietanti appunto perché spesso seguite con l’attenzione e la freddezza della camera fissa (tolta forse la morte di Bliss). Truffaut non taglia gli spazi né l’azione quanto Hitchcock, che tende a comporre un mosaico continuo di impressioni e gesti.
Questo approccio è perfettamente in sintonia con la linearità, il gusto logico di Julie che non ha di certo l’instabilità di Marnie, essendo totalmente padrona di sé stessa. Il trauma subito non la rende instabile, non la fa cadere in uragani emotivi in debito con la psicologia freudiana. Julie è ferita, non sbilanciata dalla sofferenza.
Lo si vede anche nella scena in cui scagiona l’ingiustamente accusata mademoiselle Becker, maestra di Cookie che è il figlioletto di una delle sue vittime. La punizione è da attuare in rapporto diretto con i responsabili, senza che degli innocenti siano toccati come altre assassine del cinema avrebbero magari auspicato: Giustizia e Legge umana non sono per lei concilianti. La sua Dike* personale non ascolta che l’oggetto amato, David, ed il dio Amore. Concluso il tour de vengeance, lei potrebbe dire come Tupac <<Only God can judge me now>>.
Alla riuscita del tutto contribuisce il controllo espressivo totale di Jeanne Moreau (1928-2017), inteprete di Julie e della sua sorella cinematografica Catherine.
Antonio Canzoniere
*Dike: Giustizia in greco antico