Francesco Olivucci, un genio nell’ombra tra arte di regime e Resistenza

La storia e il mistero di un artista (troppo) poco conosciuto

Francesco Olivucci, "Il Partigiano"

"Il Partigiano" di Francesco Olivucci, Silografia, 15 x 8,5 cm, destinata a "Noi Donne", anno I, n. 2, 10/07/1944, conservata presso l'Istituto Storico della Resistenza e dell'età contemporanea di Forlì-Cesena.

In pochi fuori dalla zona di Forlì-Cesena conoscono il nome di Francesco Olivucci, e questo è un vero peccato. In questo articolo vi raccontiamo perché si è trattato di un artista (e di un uomo) straordinario.

Francesco Olivucci, nato il 24 agosto 1899, aveva una sola grande passione nella vita: l’arte. Ad appena 10 anni andava già a bottega da pittori e decoratori di Forlì. A 15, sotto la guida di eccellenti artisti italiani, si distingueva tra i migliori allievi dell’Accademia delle Belle Arti di Ravenna. Nemmeno l’esperienza da soldato, nel 1917, gli portava via l’amore del bello in tutte le sue forme. Tanto che, congedato, tra il 1919 e il 1920 si diplomava tra i migliori. E ancor di più, nel 1920 contribuiva a fondare il Cenacolo Artistico Forlivese, che avrebbe animato la vita culturale cittadina fino al 1928.




Negli anni ’20, del resto, al giovane Francesco Olivucci arrivavano le prime soddisfazioni. La prima commissione importante: la decorazione dell’Armeria Albicini, nel 1923. La prima personale con Carlo Dirani, nel 1926, che era un trionfo. E poi, nel 1927, il primo lavoro per il regime: l’affresco dello scalone dell’Opera Nazionale Balilla a Palazzo Braschi a Forlì. E sorprendeva, Francesco Olivucci. Oggi quegli affreschi sono stati coperti a causa della committenza, ma le foto d’epoca rivelano finestre dipinte ad aprire gli spazi verso l’esterno. E sui cornicioni, David e Ballila, due figure dai volumi e dalla resa dinamici, quattrocenteschi, a rivelare tutta l’attenzione dell’autore per la storia dell’arte italiana. E poi, Mussolini, ritratto in posizione d’onore, ben visibile da ogni punto della stanza. Un ritratto nel quale pare che il Duce, vedendolo la prima volta, dicesse di riconoscersi quanto in nessun altro mai.

E dunque: quella di Francesco Olivucci è la storia di un artista di regime?

Se dovessimo guardare alle committenze, verrebbe quasi da rispondere di sì. Nel 1937, dopo un periodo fuori Forlì, il Comune lo incaricava di affrescare l’Asilo Santarelli. Qui, oltre a una cappella con un Cristo benedicente ancora visibile, Francesco Olivucci affrescava le aule nel pieno rispetto della pedagogia fascista. E dunque trovavano spazio i temi della patria, del lavoro e della famiglia. Né mancavano, poi scialbati come il resto delle opere, una poesia di Mussolini dedicata al pane e un’aula dedicata alla memoria della madre del Duce. Sempre nel 1937, d’altro canto, l’Amministrazione affidava all’artista un lavoro gigantesco, tanto per ambizione quanto per metratura. Un affresco nella sala d’onore del Palazzo del Governo cittadino, che doveva celebrare i trionfi del Fascismo. Sembrava, insomma, la definitiva consacrazione.

Questo affresco era poi, in realtà, un gruppo di affreschi intitolato I Trionfi del Fascismo, tema voluto e adattato da Mussolini in persona. Nel gruppo dovevano rientrare la Marcia su Roma, le Forze Armate, la Promulgazione della Carta del Lavoro e la Conquista dell’Impero. E Francesco Olivucci effettivamente vi lavorò dal 1937 al 1941, ottenendo anche i complimenti del Duce e dei vertici del governo per i bozzetti. Senonché, a un certo punto, qualcosa andò storto. Era il 1941 e l’artista stava per scoprire definitivamente l’opera quando ricevette l’ordine di fermarsi. Contemporaneamente, il romano Publio Morbiducci riceveva l’incarico di realizzare una serie di pannelli delle stesse dimensioni degli affreschi di Olivucci. Cartine geografiche, pare, che raccontassero l’evoluzione dell’impero romano e italico nel tempo. Che cosa era successo?

Il mistero degli affreschi e una sua possibile soluzione

Perché a un certo punto il regime pose termine alla collaborazione con Olivucci sembra un interrogativo destinato a non ottenere risposta. Qualche punto da poter connettere, scavando bene, però c’è. Anzitutto, non era la prima volta che un’opera di Francesco Olivucci veniva coperta. Era successo già nel 1939 con la decorazione dell’Armeria Albicini, per volere di Luigi Servolini, allora Direttore dei Musei e della Biblioteca di Forlì. Perché? Difficile dirlo, ma c’è un fatto: l’adesione dell’artista al regime e ai suoi valori era tutt’altro che entusiastica, per usare un eufemismo.

La documentazione d’archivio, infatti, rivela che Francesco Olivucci aveva già contatti con l’Unione Italiana dei Lavoratori, sindacato romagnolo socialista repubblicano, dal 1938. E proprio al 1938 risalgono alcuni disegni, oggi conservati presso l’Istituto Storico per la Resistenza e l’età contemporanea di Forlì, fortemente irriverenti verso il regime. Il più indicativo è forse Il Gerarca, una caricatura di Mussolini tarchiato e con il cinturone pieno di posate anziché di armi. Che poi Olivucci non avesse grande stima del Duce risulta evidente anche da una testimonianza del 1941. Un suo collaboratore dell’epoca, infatti, riferisce che il pittore accolse Mussolini con indifferenza quando fece visita al cantiere. Arrivando addirittura a piantarlo in asso per tornare a dipingere mentre quello gli parlava.

Del resto, tra le fonti bibliografiche ce n’è una che forse chiarisce questo episodio. Lo storico dell’arte Alberto Mingotti, infatti, riferisce una battuta del Duce a Olivucci. Mussolini, cioè, vedendo la grande quantità di lavoratori ritratti nell’affresco, avrebbe chiesto al maestro se non fosse convinto di stare affrescando la Camera del Lavoro. Potrebbe anche essere questa la chiave del mistero. E se Francesco Olivucci fosse stato così audace da rappresentare, al cuore del potere fascista e dietro sua commissione, il più antagonista dei temi?

L’impegno a favore della dissidenza e della Resistenza

Che a Francesco Olivucci l’audacia non mancasse, del resto, è ampiamente testimoniato dai materiali raccolti presso l’Istituto Storico di Forlì. Una grande quantità di incisioni per la pubblicistica dissidente, anzitutto. Opere satiriche nei confronti del regime, ma anche celebrazioni del coraggio e della memoria di chi si opponeva e denunce degli orrori nazifascisti. Grazie alla sua donazione, l’istituto conserva ancora qualcuna delle matrici: pezzi di legno, prevalentemente di pero, grandi come un cellulare, a volte meno. Oppure lamine di metallo lavorate. Facili da nascondere in caso di perquisizione, eppure lavorati con una maestria tali da non temere ingrandimenti anche elevati: la qualità del segno perdura. Cifra, questa, pericolosissima ma decisiva, di un vero Maestro.

E non è tutto: della donazione di Olivucci fanno parte anche altri strumenti. Quelli che rimandano alla sua attività di falsario. Perché con la sua enorme perizia l’artista poteva riprodurre qualunque timbro dell’autorità, sapendo perfettamente quali inchiostri e materiali servissero per replicarlo. Una competenza che, probabilmente, salvò la vita a decine di partigiani, dissidenti e fuggiaschi durante l’occupazione.

Il Dopoguerra e le traversie di un maestro dimenticato

Al termine del conflitto, purtroppo, Francesco Olivucci non poté godere di un pur meritato riconoscimento. Poco politico e poco politicizzabile, fu coinvolto in una serie di controversie per l’assegnazione di lavori da parte dell’Amministrazione. Un contesto nuovo e spiazzante per chi, poco incline all’associazionismo, contava solo sulla competenza tecnica per ottenere gli incarichi per cui sarebbe stato qualificato. Trovò, invece, il proprio contesto ideale nell’insegnamento presso l’Istituto Professionale Femminile, dove diresse un laboratorio che ibridava tecniche e stili con risultati eccezionali. E si espresse felicemente nella gratuità del dono della propria arte, riuscendo a compiere imprese straordinarie e malauguratamente non celebrate. Ne è un esempio la chiesa di Sant’Andrea Apostolo ad Alfero, che Olivucci progettò e realizzò interamente, a titolo gratuito come dono alla comunità. Valendosi di manodopera locale l’artista edificò, decorò e arredò l’edificio, facendone dono al comune e alla diocesi che avevano ospitato tante sue villeggiature.

Per questo, a parere di chi scrive, l’itinerario artistico e umano di Francesco Olivucci merita oggi di essere riscoperto. Non soltanto per l’eccellenza artistica e lo straordinario eclettismo raggiunti ibridando studio e talento. Soprattutto, per la scelta consapevole e coerente di praticare l’arte come forma di attività umana in grado di cambiare il mondo in meglio.

Valeria Meazza

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