Francesco D’Adamo: “Ragazzi, leggete i classici ed esigete l’impossibile!”

Francesco D'Adamo

Non chiamatelo “autore di libri per ragazzi”: Francesco D’Adamo, classe 1949, è piuttosto uno scrittore che si rivolge ad «adulti che provvisoriamente hanno 13-14 anni». E se la differenza vi sembra pretestuosa, forse è perché non avete ancora letto le storie che scrive.

Infatti, i romanzi di Francesco D’Adamo – più volte premiati, peraltro, con prestigiosi riconoscimenti e tradotti all’esteronon mirano al semplice intrattenimento. Essi veicolano, invece, storie dure e di grande complessità, che spingono i ragazzi a riflettere, a indignarsi, a prendere posizione. È questo, secondo lo scrittore, il compito più proprio della letteratura: far scoprire ai lettori la realtà e aiutarli a dotarsi degli strumenti per cambiarla.




Dopo aver letto uno dei suoi ultimi romanzi, Antigone sta nell’ultimo banco (Giunti, 2019), ho avuto modo di intervistare lo scrittore milanese. Francesco D’Adamo ha espresso un forte dissenso verso le derive ideologiche e morali favorite dalla crisi della scuola e, soprattutto, della famiglia. Più forte delle difficoltà, tuttavia, rispetto al mondo di oggi e di domani nelle riflessioni di questo autore straordinario mi è sembrata la speranza. Una speranza riposta soprattutto nei suoi giovani lettori, cui riconosce il diritto-dovere di esigere un mondo migliore.

Vorrei cominciare dal romanzo che mi ha condotta al suo lavoro, Antigone sta nell’ultimo banco. Una storia coraggiosissima, soprattutto nell’Italia di oggi, che vive un inasprimento inaudito di fenomeni di razzismo e xenofobia. Come e perché è nato questo romanzo?

Francesco D’Adamo:

Ormai da vent’anni io cerco di raccontare agli adolescenti – che per me sono adulti di 13-14 anni – il mondo nel quale vivono e vivranno. Ci sono temi, come il razzismo, la xenofobia e ogni forma di discriminazione, di cui non è facile parlare, soprattutto con i più giovani. Però non si può pensare che loro vivano sotto una campana di vetro, che questi fenomeni e problemi non li raggiungano. Ecco allora che il romanzo, se è un buon romanzo, può diventare strumento per parlare con gli adolescenti di cose difficili. Cose che è importante non passino sotto silenzio, taciute, dimenticate.

Quest’ultimo romanzo nasce come un romanzo contro il razzismo. Volevo mostrare all’opera tutta la violenza e la brutalità – tanto esplicita quanto nascosta – di questa piaga, perché credo ce ne sia un gran bisogno. Occorre parlare coi nostri ragazzi del momento di odio dilagante che stiamo vivendo, non fare finta di niente. Così ho scelto di scrivere una vicenda di ordinario razzismo in Italia. Una vicenda in cui la vergogna dello sfruttamento dei braccianti stranieri, fatti lavorare fino a morire di fatica, si mescola alla vergogna dell’odio immotivato.

Sono arrivato ad Antigone colpito da un trafiletto nella pagina interna di un quotidiano. La notizia riportava che un bracciante immigrato era morto per cause sconosciute dopo una giornata di lavoro nei campi. Il sindaco del paesino dove lavorava gli aveva negato la sepoltura perché si trattava di uno straniero: “non è uno dei nostri, non ci riguarda”. Così il morto era rimasto per giorni all’obitorio, abbandonato, finché un gruppo di cittadini di buonsenso con una colletta lo aveva fatto seppellire. Ora, questo morto insepolto mi ha richiamato alla mente il cadavere di Polinice che giaceva insepolto fuori da Tebe. E, ovviamente, Antigone: la sorella che, in nome di una legge superiore rispetto ai dettami di un re vendicativo, incontra la morte pur di seppellirlo. Mi è sembrato un collegamento logico, anche perché rende subito evidente ai ragazzi l’attualità straordinaria di una delle più grandi storie della letteratura mondiale.

Prima di dedicarsi esclusivamente alla scrittura, Lei è stato un insegnante ed è ancora, nel rivolgersi ai ragazzi, un educatore che opera con le storie. Ora, vorrei chiederle: in che modo le storie ci educano?

Francesco D’Adamo:

Le grandi storie – e, nel loro piccolo, i buoni romanzi – ci trasmettono idee, esempi, valori, visioni del mondo. Ci ricordano che, anche con tutta la nostra fragilità, anche con tutta la nostra paura, possiamo sempre provare a cambiare le cose.

Nel romanzo, ad esempio, per scelta non ho voluto raccontare il coraggio di Antigone. Perché Antigone è l’eroina senza macchia e senza paura, quella che va incontro alla morte senza un attimo di cedimento. Ma la maggior parte di noi non è così. Noi non siamo eroi: siamo fifoni e insicuri, reticenti. Per questo ho voluto raccontare, invece, il coraggio di Ismene. E quello di una ragazzina che, controvoglia, si scopre più simile alla “sorella fifona” del mito di quanto vorrebbe. Nonostante la paura, però è lei che sul proscenio fa accadere l’impossibile. Con lei ho voluto dire che anche noi, ciascuno nel suo ambito, possiamo alzare la mano e dire: no, io non ci sto.

Ecco, il tipo di storie cui mi dedico come scrittore è in effetti il mio modo per dire “non ci sto”. Sono un professionista, potrei scrivere qualsiasi cosa. Potrei scrivere un ciclo fantasy, probabilmente mi divertirei nel farlo. Ma con questi romanzi che scrivo io voglio rivolgere un messaggio per me urgentissimo ai lettori. Cioè: “provateci anche voi, a dire di no, se sentite che certi atteggiamenti ed espressioni intorno a voi sono sbagliati. Potete farlo, ne siete capaci.”

Ancora meglio, poi, se le mie storie diventano il pretesto – come sta accadendo spesso con la mia Antigone – per la scoperta di un classico. Ai ragazzi, quando vado nelle scuole, lo dico sempre: non dovete avere paura dei classici perché sembrano “grandi” e “pesanti”. Sono storie fondamentali e, nella loro essenza, attualissime. Anche se esistono da millenni, in fondo parlano e raccontano proprio di noi. Ci raccontano come persone, come esseri umani: i nostri dolori, i nostri timori, le nostre paure. In queste storie, così belle che vengono lette da secoli e, generazione dopo generazione, offrono risposte a chi le cerca, c’è tutto. Sono la nostra storia, la nostra carne, i pilastri su cui spesso ci reggiamo senza saperlo. È per questo che vanno ripresi, questi benedetti classici, e letti senza paura. Specialmente nell’età in cui ci si sta formando.

Nelle sue parole mi sembra di ravvisare una grande fiducia nelle giovani generazioni, nelle loro capacità, nel loro senso di giustizia che viene formandosi. Nel contesto del discorso pubblico, però, mi sembra che invece prevalga una sfiducia generalizzata e un diffuso disinvestimento nei confronti dei ragazzi. Lei cosa ne pensa?

Francesco D’Adamo:

È vero che i ragazzi di questa generazione a volte sembrano apatici, poco critici, privi di un senso di identità collettiva. È anche vero, però, che i ragazzi tendono a restituire quello che ricevono e quello che ricevono è spesso sconfortante. Non mi riferisco alla scuola: anzi, mi sembra che gli insegnanti riescano a fare miracoli nonostante gli enormi problemi dell’istituzione. A dire la verità, ho l’impressione che il buco nero sia spesso la famiglia.

Come dicevo prima, ho la sensazione che in questo Paese tiri una brutta aria ultimamente. Un’aria nera di violenza e prevaricazione che coinvolge ormai milioni di persone, cui ammorba il cervello. Tra queste persone ci sono anche i familiari di molti ragazzi che troviamo a scuola. Ora, se a casa non si affrontano certi discorsi, oppure sono ammessi un certo linguaggio e la sua linea d’azione, cosa dovremmo aspettarci dai ragazzi?

Eppure, quando vado a parlare con loro, trovo molto interesse rispetto alle tematiche che tratto. Forse gli studenti si aprono volentieri al dialogo e al confronto perché si rendono conto che li sto trattando da adulti interpellandoli su questioni urgenti. Sono disponibili a impegnarsi e capaci di dare segnali molto interessanti, come è successo con il movimento di Greta Thunberg o quelli di altri giovanissimi. Il nostro compito, come insegnanti, educatori, genitori, è fornire ai ragazzi tutti gli strumenti critici necessari e lasciarli liberi di compiere le proprie scelte.

Col tempo, personalmente sono arrivato alla conclusione che, se vogliamo avere un futuro, dobbiamo puntare sui giovani e i giovanissimi. Dobbiamo fidarci di loro: non c’è altra scelta se non questa e il continuare a educare, educare, educare. Perché solo con l’educazione e la cultura si può sperare di avere la meglio su quest’aria nera pestilenziale.

Vorrei proporle un piccolo esperimento mentale. Immaginiamo per un attimo che i personaggi del suo romanzo, Jo, Luca Scialla, Federico, potessero trovarsi, mescolati ai lettori, davanti alle nostre istituzioni. Immaginiamoli davanti al Presidente, oppure a colloquio con il Parlamento. Che cosa chiederebbero a questa Italia?

Francesco D’Adamo:

Credo che chiederebbero l’impossibile. Così come è impossibile la richiesta dei giovani che scendono in piazza con Greta chiedendo un mondo diverso e migliore. “Ci avete dato un mondo inquinato, che sta morendo. Un mondo pieno di guerre, genocidi, massacri, odio, violenza, intolleranza. Avete compromesso il nostro futuro.”, direbbero. “Adesso, noi vi chiediamo un altro futuro possibile. La nostra età ci dà il diritto di chiederlo. Di esigere da voi un mondo migliore. un mondo bello, libero da odio e intolleranza. Fate ciò che potete. E, soprattutto, fate anche l’impossibile”.

 

Penso che siamo arrivati a un punto in cui bisogna chiedere l’impossibile, perché chiedere il possibile equivale a rimanere impantanati nei compromessi. Bisogna osare immaginare l’impossibile. Ma questo è appannaggio dei ragazzi di 13-14 anni, che hanno tanta fantasia, le mani pulite e la coscienza a posto. Loro possono e devono farlo. Ribaltando tutto, ma veramente tutto.

Se dovesse, in un prossimo futuro, rivisitare un altro mito, quale sarebbe?

Francesco D’Adamo:

Difficile dirlo. Credo, però, che mi piacerebbe riprendere qualcosa dell’Odissea, che per me è il più grande romanzo che sia stato scritto nella storia della letteratura mondiale. Penso che parlerei di Ulisse, tanto quello di Omero quanto quello dantesco. Vorrei riproporre la sua figura di viaggiatore aperto, curioso, intelligente. Ecco, Ulisse potrebbe davvero essere un personaggio presente in un mio prossimo romanzo.

Mentre lo scrittore mi dava questa risposta, l’ho immaginato vividamente spiegare ai ragazzi l’inestinguibile brama di sapere che muoveva il viaggio di Ulisse. E mi è parso bellissimo.

Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.

Forse, veicolate da una storia avvincente e attuale, queste meravigliose parole in un linguaggio arcaico e arcano faranno breccia più facilmente. Un paio d’occhi si accenderanno di stupore, seguito da un altro e un altro ancora, mentre nelle coscienze verrà piantato un seme d’importanza cruciale. Un seme che, dopo un giorno o dopo anni, se adeguatamente nutrito potrebbe sbocciare nella consapevolezza dell’innata dignità e bellezza dell’essere umano. Sarà un altro piccolo passo verso un mondo migliore, un mondo reso giardino.

Valeria Meazza

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