Riccardo De Biase non è un uomo qualsiasi, è un fotografo la cui storia ha del singolare e merita di essere raccontata. Nato a Roma nel 1964, fin da subito si innamora delle arti visive, passione che lo spinge con successo alla professione di fotografo di moda e di viaggi. Al culmine della carriera, riceve la diagnosi di “atassia cerebellare”, una malattia neurodegenerativa che provoca disturbi alla vista, al linguaggio e una progressiva scoordinazione motoria. Senza lasciare il minimo spazio allo sconforto, decide di rivoluzionare la propria vita partendo da un punto fermo: l’Oasi di Chinguetti, in Mauritania.
Riccardo De Biase, lavorando come fotografo professionista hai avuto modo di viaggiare molto. Quando hai deciso di dare un taglio al passato cambiando completamente stile di vita? Perché hai scelto proprio la Mauritania?
Quando ho intrapreso la carriera di fotografo mi occupavo di moda. Inizialmente avevo una vita piuttosto stanziale, mi spostavo solo fra Roma e Milano. Poi mi sono trasferito in California e per anni ho vissuto a Los Angeles. Ho completato gli studi e la mia formazione ma sentivo che il mondo della moda iniziava a “starmi stretto”. Così mi sono dedicato ai reportage di viaggio. Da quel momento ho iniziato a girare il mondo: dal nord Africa al sud America. Ho scoperto la Mauritania proprio grazie a questo lavoro, facendo un reportage sul popolo Imraguen e la loro tradizionale pesca con i delfini. Facevo una vita che mi soddisfaceva molto.
Poi, sono dovuto rientrare in Italia a seguire l’azienda agricola di famiglia vicino Viterbo. Dopo quindici anni bucolici mi hanno diagnosticato l’atassia cerebellare. Fin da subito ho capito di non voler vivere la malattia passivamente: casa, televisore, ospedale. Volevo conviverci ma senza rinunciare alle emozioni. Questo tuttavia non è possibile nella nostra società…
Dopo la malattia, è arrivato il divorzio. Così, ho deciso di organizzare un viaggio nel posto più tranquillo che conoscessi, l’oasi di Chinguetti. Durante la vacanza ho capito di voler abbandonare i vecchi ritmi e ho iniziato a lavorare per aprire un ristorante in una piccola oasi. Ci sono voluti tre anni prima di potermi stabilire definitivamente qui.
Ora continuo ad occuparmi di turismo, organizzo circuiti di visita del deserto con mia moglie Fatimatou, abbiamo un piccolo campo tendato. Ormai sono quindici anni che vivo qui, amo e conosco bene questo Paese che mi ha ospitato e mi ha dato una famiglia e tre bellissime figlie. Non immaginavo che quei venti giorni di vacanza si sarebbero trasformati in quindici anni!
Come è stato immergersi in una cultura lontana dalla nostra, diversa negli usi e nei costumi, nei tempi dilatati delle giornate non più asfissiate dal consumismo sfrenato? C’è stata qualche difficoltà iniziale?
È stato un processo graduale ma spesso molto, molto difficile. Solo il mio forte amore per l’Africa, per mia moglie Fatimatou e la mia perseveranza mi hanno aiutato. All’inizio mi sono dovuto abituare ai nuovi ritmi. Sai, le priorità sono diverse. Come diverse sono le cose da fare. Le giornate non sono mai vuote e non ho mai vissuto la noia occidentale. Qui anche la noia riesce ad essere costruttiva.
La diversità si riscontra in tutto il vivere quotidiano. Il Sole cocente, il freddo, i venti, la sabbia, la poca acqua, la vita in tenda. Sai, tranne Jacques il francese, non ho mai incontrato nessuno che viva il Sahara. Infatti quasi tutti gli occidentali che vivono qui vivono all’occidentale.
Nella pratica la tua giornata tipo come si svolge? Qual è il tuo lavoro ora?
Non esiste una vera giornata tipo. Come ti dicevo, mi occupo di turismo e di itinerari di viaggio nel deserto. Quindi, quando ci sono ospiti o sono in circuito è chiaro che le attenzioni sono tutte rivolte ai viaggiatori.
Poi ci sono le attività quotidiane, come accudire capre e cammelli o riparare le attrezzature. Qui quando qualcosa non funziona non si butta, si cerca di ripararla.A volte andiamo in trasferta alla città più vicina, Atar, per fare compere o andare in banca. C’è anche il dentista, insomma la vita è più simile di quanto pensi. La cosa che credo distingua le nostre vite è la continua “sfida” con la natura, che qui è con la N maiuscola. Ma poi a pensarci bene, non si tratta di una sfida. Con amore e abnegazione tutto riesce.
È cambiata la percezione che hai della vita rispetto a prima?
Sicuramente sì, è cambiata. Anzi, cambia giorno dopo giorno poiché mi confronto con una realtà che mi impone a priori l’accettazione di molti accadimenti. La filosofia dell’Inshallah (“se Dio vuole”) senza dubbio aiuta a vivere, ma è dura per noi occidentali, anche se sono musulmano.
Molte persone associano scelte di vita “drastiche” come le tue al coraggio. Cosa pensi a riguardo?
In parte è vero, forse è una questione di coraggio. Non tanto nell’intraprendere questa strada, ma nel proseguirla.
Per me la scelta di vivere nel deserto è stata casuale e graduale, più che coraggioso sono stato resiliente.A volte penso che il vero coraggio lo abbia chi resta, chi a capo chino va avanti proseguendo una vita senza significato per amore dei figli, per amore della famiglia. Io non ci riesco e non ci sono riuscito. Quella vita occidentale mi stava stretta e ho scelto diversamente. Il mio percorso non è certo stato lineare né alla portata di tutti.
Ma, in futuro, torneresti con la tua famiglia in Italia?
Sinceramente no, sto bene qui, non tornerei in Italia in pianta stabile. Verrei in vacanza per salutare amici e parenti.
Come viene affrontata l’emergenza da Coronavirus in Mauritania? Anche voi avete dovuto cambiare le vostre abitudini?
L’emergenza viene affrontata molto bene. Abbiamo fatto tesoro di quanto appreso dagli altri Paesi coinvolti prima di noi. Ovviamente non mi riferisco alle strutture ospedaliere o alle cure mediche, ma alle misure di sostegno alla vita quotidiana.
Ad esempio, il governo mauritano ha mandato l’esercito a distribuire gli aiuti alimentari alle famiglie povere di Nouakchatt. Hanno lanciato la prima stazione radio dedicata alla trasmissione del programma scolastico, i corsi sono accessibili anche via tv, su internet o attraverso un’app. Hanno realizzato il “programma pastorale speciale” che consiste nella distribuzione di migliaia di tonnellate di alimenti per il bestiame. Questa misura serve a dare una mano agli allevatori, poiché la stragrande maggioranza della popolazione vive principalmente di attività pastorale, si parla del 21% del PIL annuale.
Comunque, ad oggi siamo a conoscenza di soli sette casi e di un deceduto. Forse il clima, la siccità e la mancanza di inquinamento sono nostri alleati?
Arianna Folgarelli