Facciamo un po’ di chiarezza.
Nel 1941, l’Italia di Mussolini invade la Jugoslavia e si annette una fetta del suo territorio: parte delle attuali Slovenia e Croazia.
Gli invasi sono obbligati a parlare in italiano e a sottomettersi al fascismo. I dissidenti vengono rastrellati, fucilati oppure mandati nei campi di concentramento italiani (Arbe, Gonars, Monigo, Renicci e via dicendo).
Furono mandate nei campi poco meno di 15.000 persone. Circa uno su dieci, tra loro, morì lì dentro per denutrizione o malattie.
I battaglioni fascisti si distinguono in particolare per la crudele malvagità, distruggendo, devastando, incendiando villaggi e città, assassinando vecchi, donne e bambini, superando in crudeltà le stesse orde tedesche. (Enzo Misefari)
La ex Jugoslavia, alla fine della guerra, contò circa 1 milione e mezzo di morti su 16 milioni di abitanti (per capire le proporzioni: la seconda guerra mondiale, in Italia, provocò circa 300.000 morti in tutto, su 45 milioni di abitanti).
Ci odiavano, insomma, e avevano tutte le ragioni per farlo. Noi eravamo gli aggressori, gli invasori, loro le vittime.
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Le foibe furono l’orrenda reazione a tutto questo da parte dei titini. Ed è più o meno inutile specificare che chi sminuisce o, addirittura, gioisce di una mostruosità simile, sia solo un povero imbecille.
Ma la storia andrebbe sempre raccontata tutta, perché siamo un paese in cui la gente ha la memoria storica di un pesce rosso.
E chi ritiene di poter utilizzare le foibe per una sorta di delirante “par condicio” da affiancare all’olocausto e alle leggi razziali, quando, al tempo stesso, diserta il 25 aprile reputandolo “divisivo”, è solo un patetico, piccolo, vermiciattolo fascista.
Emiliano Rubbi
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