Flush: la vita di un cane raccontata da Virginia Woolf

Flush

Intrapreso nel 1931 per gioco e pubblicato nel 1933, Flush è stato il maggiore successo editoriale di Virginia Woolf da viva. E novant’anni dopo resiste ancora alla sfida del tempo, riuscendo a sorprendere. Che cosa rende così strepitosa questa biografia canina?

Anzitutto, lo sguardo dell’autrice. Flush, infatti, non è soltanto il divertissement di una mente straordinaria che, esasperata dalla revisione de Le Onde, trova una conveniente via di fuga. È l’esercizio di sguardo di qualcuno che amava i cani tanto profondamente da scrivere, come faceva la Woolf all’amica Ethel Smyth nel 1935,

Dirai che sono sentimentale, ma per me un cane rappresenta – come dire? – il lato privato della vita, quello giocoso.

La Woolf, del resto, scrivendo queste parole aveva in mente due cani ben precisi. Anzitutto, Flush, il cane di Elizabeth Barrett Browning, una delle maggiori poetesse della letteratura inglese, del quale la scrittrice aveva recentemente pubblicato la biografia. Ma anche Pinker (o Pinka), la cagnolina che l’amica/amante Vita Sackville-West le aveva donato nel 1926. A proposito di quest’ultima, divenuta musa ispiratrice per l’ideazione del personaggio di Flush, Nadia Fusini scrive:

In Pinka entrambe le amiche amanti si immedesimano, sentendosi reciprocamente al guinzaglio l’una dell’altra. E negli anni continueranno anche così, sotto travestite spoglie, a scambiarsi affetto, tenerezza, pensieri. Pinka incarna, insomma, sotto specie animale il loro amore immaginoso e fantastico. E se in molti modi l’erotismo trabocca, con Pinka assume la forma della passione cinofila.

Né Pinka, in effetti, aveva fatto breccia nel cuore della sola Woolf: tanto lei quanto suo marito Leonard ne erano follemente innamorati. Basti leggere, ad esempio, quanto scriveva lei in una lettera a Vita poco dopo l’arrivo del cucciolo a casa:

Pinker mi ha distrutto la gonna, l’ha ridotta a brandelli. Ha mangiato le bozze di Leonard. Ha fatto tutti i danni che si potevano fare al tappeto. Ma è un angelo di luce. […] Leonard dice che Pinka gli fa credere seriamente nell’esistenza di Dio… E questo dopo che per otto volte in un solo giorno lei ha fatto pipì sul pavimento!




Flush, però, non nasce semplicemente dall’amore di Virginia Woolf per i cani e per la poesia di Elizabeth Barrett Browning.

Il testo è un tentativo, straniante e divertentissimo, di calarsi in un punto di vista radicalmente altro come quello dell’animale. Un tentativo che solo una scrittrice del calibro di Virginia Woolf avrebbe potuto azzardare, in quel preciso panorama storico-culturale. Va tenuto presente, infatti, che negli anni ’30 il genere storico-biografico era una faccenda serissima e, per giunta, un club per soli uomini. A questo club apparteneva, tra gli altri, anche il padre di Virginia, Leslie Stephen, uno dei più celebri estensori del Dictionary of National Biography. Così come vi apparteneva lo storico Lytton Strachey, autore della raccolta Eminenti vittoriani e carissimo amico di Virginia. Proprio a lui, prima della sua morte nel 1932, si rivolgeva Flush, come arguta frecciatina a un genere, secondo Virginia, tutto da ripensare. Cosa che lei, con questa sua biografia canina, giocosamente stava provando a fare.

Il genere biografico, sembra insomma comunicare Flush, porta in scena anche categorie di esseri che i signori uomini nella loro ricerca della grandezza hanno ignorato. Come i cani, per l’appunto. Che forse non vivono trionfi e non meritano pomposi riconoscimenti, eppure sono portatori di esperienze, posture esistenziali e prospettive sul mondo non meno preziose. Particolarmente illuminanti risultano, a questo proposito, le parole di Quentin Bell, nipote e biografo di Virginia Woolf:

Flush non è tanto un libro scritto da un’amante dei cani, quanto da una persona che amerebbe essere un cane. […] Virginia non si legava ai cani nello stesso modo dei più accaniti dog lovers. Per esempio, difficilmente li abbracciava o li baciava. Ma cercava di immedesimarsi nelle sensazioni, nelle emozioni, perfino nei possibili pensieri di un cane.

Pur leggerissimo e giocoso, dunque, questo libro si configura come una meditazione, come un tentativo di capire. Anzi, di più: come un tentativo di vivere attraverso l’esperienza di un cane. Un tentativo, è vero, forse impossibile. Perché in Flush, bisogna ammetterlo, spesso c’è ben poco di canino. Woolf spesso esagera, iper-interpreta, si perde in una fantasticheria che del cane fa uno specchio troppo umano dell’umano. Eppure, a ogni pagina la scrittrice prova ad abbassare il punto di vista, a dare spazio a un’esperienza ai confini del dicibile.

Il migliore esempio di questo procedimento si trova tra le meravigliose pagine che raccontano l’esperienza fiorentina della famiglia Barrett-Browning. In Italia, infatti, accompagnando Robert ed Elizabeth, sfuggiti alla famiglia di lei che ne osteggia il matrimonio, il cocker spaniel sperimenta una libertà senza pari. Perché Firenze non è Londra: Flush qui può scorrazzare liberamente senza che la padrona tema per la sua incolumità. Ecco allora che, naso a terra, impara a suo modo la città – e chi legge con lui:

Flush vagava per le strade della città per godersi l’estasi dell’odore. Seguiva un percorso suo proprio con l’olfatto tra vie principali, piazze e vicoli. Si faceva largo con il naso di odore in odore – ruvidi, morbidi, scuri, dorati. […] Dormiva in un caldo angolino di sole – quanto puzzava, la pietra, per via del sole! Cercava una galleria d’ombra – che odore acido dava alla pietra, l’ombra! Divorava interi grappoli d’uva principalmente per il loro profumo violaceo. Masticava resti di maccheroni e capra gettati dal balcone da qualche massaia italiana: odori aspri, odori cremisi. Seguiva la languida dolcezza dell’incenso fin dentro l’intrico violetto delle buie cattedrali. E, fiutando, cercava di lappare l’oro sulla tomba dai vetri decorati. […] In breve, conosceva Firenze come nessun essere umano l’aveva mai conosciuta […]. La conosceva come solo i muti conoscono. Non una sola della miriade di sensazioni che provava si sottomise mai alla deformazione delle parole.

E dire che, poco prima, impersonando Elizabeth e lamentando la povertà del lessico olfattivo, la Woolf aveva scritto:

descrivere la più semplice delle sue esperienze con la costoletta quotidiana o il biscottino è al di là delle nostre capacità.

Ma del resto, si sa, gli scrittori sono fatti così. Appena anche solo s’immagina di porre un limite al linguaggio, essi subito raccolgono il guanto di sfida. Con esiti sempre strabilianti.

Attraverso questo libro, perciò, affiora una Virginia Woolf sorprendente. Un’intellettuale che, come forse solo Friedrich Nietzsche trent’anni prima aveva osato fare, si mette a quattro zampe e immagina di percepire altrimenti. Non, come il filosofo tedesco, per spiegare la volontà di potenza e la componente istintuale della vita. Piuttosto, per costituire una sbalorditiva alleanza. Un’alleanza tra voci minoritarie, tra voci tacitate: quella non umana e quella femminile.

Va ricordato, infatti, che Flush è anche un tributo a Elizabeth Barrett Browning. Una figura molto amata da Virginia Woolf e decisiva nel suo interrogarsi sulla condizione delle donne scrittrici. Cagionevole di salute, mite e alla mercé del padre e del più anziano tra i fratelli, progressivamente Elizabeth si era emancipata. Flush, nell’opera di Woolf come nella vita, è testimone privilegiato di questo processo e compagno fidato. Un compagno con il quale non è sempre facile, a causa della differenza di specie, trovare la perfetta sintonia, eppure capace di sostenerla. Nonché di innescare la presa di coscienza di Elizabeth della propria possibilità di essere libera e indipendente.

Ciò avviene quando, per la prima volta, per amor suo Elizabeth è costretta a opporsi agli uomini della sua vita. Non solo al padre e al fratello, ma anche al futuro marito. Questi, infatti, vorrebbero dissuaderla dal pagare il riscatto richiesto da una banda di malviventi in seguito al rapimento del cane. Pagare, dicono gli uomini, sarebbe cedere all’ingiustizia. Sarebbe un’imperdonabile debolezza. Ma per Elizabeth imperdonabile sarebbe rinunciare a un compagno fedele in nome di un principio astratto.

Come sarebbe stato facile cedere – come sarebbe stato facile dire […]: “Sono una debole donna; non so niente di legge o di giustizia. Decidete voi per me”. […] Il signor Browning poteva dire quello che voleva. Lei avrebbe salvato Flush. A costo di discendere nelle fauci dei sobborghi più malfamati per andarlo a riprendere. A costo di guadagnarsi tutto il disprezzo di Robert Browning.

La fredda razionalità si scontra con la cura, il principio astratto con il sentimento concreto che lega due viventi. Ecco che, in queste pagine, si prefigura un tema decisivo per il femminismo che verrà. Che troverà, non a caso, un prezioso interlocutore nel pensiero animalista.

Mentre Virginia Woolf era al lavoro sul libro, la scrittrice e poetessa americana Gertrude Stein, sua contemporanea e parimenti cinofila, scriveva: «io sono io perché il mio cane mi riconosce».

Una frase apparentemente ovvia, banale, eppure straordinaria. Perché essa dice precisamente ciò che chiunque abbia avuto la fortuna di condividere la propria vita con un cane probabilmente già sa bene. Che se umani si diventa, è anche – come ha mostrato Leonardo Caffoattraverso la presenza dei compagni di vita non umani. Se si tiene presente questo, diventa evidente – e Flush lo chiarisce in maniera perfetta – come tra musi e muse la differenza possa essere davvero labile.

Valeria Meazza

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