Potreste aver intravisto, in questi giorni di scrolling annoiato della home di Facebook, l’allettante annuncio di Change.org, che invita a firmare una petizione online per far chiudere i programmi di Barbara d’Urso. O quella per far riaprire un ospedale. O per proteggere il personale sanitario. Tutto molto nobile, d’accordo: ma parliamo anche di protezione dei dati degli utenti e, soprattutto, di come diventi facile poi lavarsi la coscienza con lo slacktivism.
Insomma la Barbara nazionale, qualche settimana fa, ha recitato una sentita preghiera con il Matteo nazionale e il popolo ha invocato la chiusura del programma, indignato. Lo ha fatto tramite Change.org, una piattaforma tra le più conosciute in Italia e nel mondo per le raccolte di firme online a favore delle cause più disparate. Qualsiasi utente, quindi, può entrare in questa o un’altra piattaforma per firmare una petizione online a favore di una causa, di una persona o, a volte, anche di un’azienda.
L’omeopatia della petizione online
Sulle prime, firmare una petizione online può essere omeopatico: “Oh, non cambierà nulla, ma sai mai”. Non costa nulla e spesso le petizioni sono davvero richieste nobili, soprattutto in questi giorni di emergenza. C’è Simone che ha raccolto più di 50mila firme, chiedendo al sindaco di Milano Beppe Sala di non far pagare il parcheggio agli infermieri. Tre giorni dopo la petizione ha raggiunto il primo cittadino e lo ha convinto. Il prof. Martelli, ex primario al Forlanini di Roma, ha chiesto di riaprire proprio l’ospedale chiuso nel 2015 per aumentare i posti letto a dispozione e ha raccolto 100 mila firme, oltre alla risposta della sindaca Raggi, della Regione e dell’Azienda ospedaliera. Antonella, invece, insieme a 35mila persone, ha chiesto al Governo di aumentare i permessi previsti per i genitori di figli disabili, in questo momento a casa da scuola. La ministra Bonetti le ha risposto direttamente.
Le petizioni qui citate provengono tutte da Change.org. Anche la petizione relativa alla chiusura dei programmi di Barbara d’Urso, che ha quasi raggiunto le 500 mila firme, è partita da qui.
All’estero, Change.org ha avuto un ruolo nell’esercitare una certa pressione sulle autorità in casi come quello di Trayvor Martin, un 17enne ucciso in Florida. La petizione promossa sulla piattaforma per ottenere giustizia fu firmata da 2,2 milioni di persone.
Come stanno in piedi le piattaforme di petizioni online?
In passato, in Italia, Change.org si era distinta per aver promosso campagne rimbalzate in tutti gli angoli del Paese, come quella per introdurre il reato di omicidio stradale. Per chiarezza, ma senza che questa diventi una critica, bisogna dire che l’azienda non fa parte del mondo non profit. Negli Usa è registrata come B-corporation, cioè un’azienda che si prefigge uno scopo sociale e su di esso fa utili. Viene definita una società for-profit che gestisce la piattaforma on-line gratuita di campagne sociali, fondata nel 2007 negli Stati Uniti e con quartier generale a San Francisco, nel cuore della Silicon Valley. Nel luglio 2012 Change.org ha aperto una sede a Roma e inaugurato quindi la sua avventura italiana.
Solitamente, quando, si firma un’applicazione, si viene poi invitati a fare una donazione. ” Puoi contribuire con 4 € perché questa petizione raggiunga chi ha il potere? – recita il banner e prosegue: “Nelle prossime ore questa petizione potrebbe finire su tutti i giornali diventando una storia di rilievo nazionale con migliaia di nuove firme, se tutti mettessero l’equivalente di una colazione al bar”. Praticamente, quindi la donazione serve a pagare un vero e proprio servizio. A volte, invece le piattaforme attirano grandi investimenti da parte di privati, come era avvenuto nel 2014 sempre per Change.org.
Nobili iniziative ma non solo
Accedendo alle pagine per firmare una petizione online, si chiede all’utente di fornire nome, cognome e indirizzo mail a un’organizzazione (solitamente la firmataria della petizione) “per ricevere aggiornamenti su questa e altre campagne anche al di fuori di Change.org”. Negli Stati Uniti, invece, spesso le petizioni sono sfruttate anche da politici e da aziende: il vettore Virgin America, ad esempio, ha usato Change.org per ottenere due gate all’aeroporto di Dallas Love. 27mila utenti hanno firmato per evitare che lo scalo fosse controllato da un’unica compagnia aerea. Anche in Italia, non sono mancate aziende che hanno portato avanti delle campagne per proteggere un loro interesse economico, come ad esempio la petizione di Assobirra per ridurre le accise sugli alcoolici.
Attenzione ai dati che si forniscono
Particolare attenzione è consigliata agli utenti nel dare in pasto i propri dati a questo tipo di aziende, non solo a Change.org. Fornitori, subappaltatori e partner commerciali (“fornitori di servizi”) possono accedere ai dati degli utenti, anche se le piattaforme affermano di aver firmato stringenti clausole contrattuali. Prima di registrare il proprio account, in questi casi, è utile farsi un giro sul trattamento dei dati personali. Sì, anche se non lo facciamo mai. In questi casi sarebbe meglio capire in che modo il nostro nome e cognome, oltre all’indirizzo mail e IP, vengono associati alle nostre idee politiche e concezioni sociali, facilmente intuibili dagli argomenti delle petizioni che firmiamo.
Il rischio, infatti, nella cessione di questi pacchetti di dati a società terze è che la nobiltà del fine sociale sfumi in lontananza. Un’azienda raccoglie i nostri dati e li vende ai suoi inserzionisti, in forma più o meno aggregata. Vi è mai capitato di trovarvi nella casella di posta delle newsletter a cui non vi siete mai iscritti? Ecco, potreste essere stati vittima di questo tipo di trasferimento di dati.
Diventare attivisti dal divano
L’altra faccia della medaglia è il cadere nello slacktivism. Essere attivisti da tastiera ci fa credere di aver fatto la differenza con un click. A volte, può anche avvenire che qualche ente o politico presti attenzione alla causa, ma chiaramente senza nessun tipo di obbligo istituzionale. In tempi di quarantena, forse, si ha anche la giustificazione di non poter andare personalmente al Polo Nord per difendere gli orsi bianchi. Una petizione potrebbe essere firmata anche da 60 milioni di italiani, ma bisogna tenere presente che non ne deriverebbe nessuna automatica conseguenza. Per quanto possa essere banale specificarlo, è meglio sottolinearlo. Spesso infatti le piattaforme, con i toni dello Zio Sam e del “We want you” puntano sul nostro irrinunciabile apporto per arrivare alla vittoria.
La retorica della vittoria
“Vittoria” probabilmente intesa come soglia di presa in considerazione dell’idea proposta. Un parametro però vuoto di significato. Ci sono petizioni firmate da quattro persone, così come da 100, per arrivare alla mobilitazione di centinaia di migliaia di persone. Firmare una petizione online per ottenere che le cose cambino: tutto molto bello, ma non sempre funziona. La retorica del raggiungere un obiettivo insieme e la narrazione del fare la differenza possono essere galvanizzanti. Di questo copione fanno parte anche le decine di successi che vengono ostentati sulle piattaforme. Petizioni firmate da decine di migliaia di utenti e che sono state prese in considerazione da chi ha potere sulla questione. Prese in considerazione su base volontaria, si badi bene. Un’esca per chi dovrebbe firmare e per chi vuole promuovere una propria iniziativa.
Uno sforzo a basso costo
Il firmare una petizione online ha effetti limitati. Probabilmente fa sentire soddisfatto chi lo fa e fa crescere i numeri della piattaforma, senza alcuna garanzia che le cose cambino. Sociologicamente, lo slacktivism ha raccolto anche numerose critiche. Si tratta di sforzi a basso costo che sostituiscono azioni più sostanziali, anziché integrarle. Il mondo delle petizioni non è diverso dalle logiche che governano i social: ogni volta che ci lamentiamo del Governo su Facebook è come se lo gridassimo, magari anche esasperati, dalla finestra. Firmando una petizione stiamo urlando dal nostro balcone: “Voglio proteggere questo animale, lo vuoi anche tu?”.
Magari riusciamo a convincere qualcuno che non si era mai soffermato a pensare all’importanza di una questione, o a rendere più consapevoli i nostri contatti che non conoscevano il problema. I social media facilitano ma sviliscono anche il concetto di impegno civico, perché ci illudono che basti un click per cambiare le cose: e allora cambiamo la nostra immagine del profilo, usiamo l’hashtag dell’iniziativa e ci illudiamo che le cose cambino dal divano di casa nostra, dove abbiamo appena firmato la petizione del momento. E ci sentiamo persone migliori.
Elisa Ghidini