Agosto 1965 – La fine del processo di Francoforte che ruppe il silenzio sull’olocausto

Il 19 agosto 1965 si concludeva il processo di Francoforte, processo contro 22 imputati dei crimini commessi nel campo di concentramento ad Auschwitz. Fu la scossa che portò molti superstiti a raccontare ciò di cui furono vittima, tra loro la voce dell’intellettuale Jean Amery.

 

La conclusione del secondo conflitto mondiale ha portato con sé per alcuni anni diversi segreti sui crimini perpetrati dai tedeschi ai danni degli ebrei.

Da una parte il silenzio dei tedeschi che cercavano di ripartire, ricominciare dall’onta di vergogna che li aveva colpiti e che attesero solo il 1963 per istituire un processo nazionale contro i criminali di guerra, il processo di Francoforte.

Dall’altra parte il silenzio degli ebrei, tentato d’esser rotto da Primo Levi che ha però visto respinta la sua opera dalle più grandi casi editrici e non appena riuscì nell’intento di pubblicare il romanzo “Se questo è un uomo”, con l’aiuto di un editore minore, non è riuscito a riscuotere il successo che un racconto del genere meritava anche a causa, probabilmente, del negazionismo che ha preso piede negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto.

Se le motivazioni “dell’amnesia” tedesca erano prevedibili ed erano, presumibilmente, atte a cercare di salvare il più possibile l’immagine di uno stato che dalla guerra ne era uscita decisamente compromessa, il silenzio del popolo ebraico era sicuramente un fenomeno inaspettato e pesava come un macigno.

A noi, oggi, sembra davvero inspiegabile che un popolo che ha dovuto piangere sottovoce, sommesso e di nascosto nel periodo del conflitto ha continuato a farlo sempre silenziosamente anche quando finalmente avevano ottenuto quella libertà che permetteva a loro di gridare la loro indignazione, il loro dolore, la loro sofferenza e di far vedere al mondo intero quanto male era riuscito a creare l’uomo ad altri suoi simili.

Anche qui si possono provare a ipotizzare diverse motivazioni. La voglia di ricominciare e quindi dimenticare, la consapevolezza che serbare rancore e odio non era di certo la soluzione migliore e che erano stati proprio quei sentimento a condurre il mondo al dramma dell’olocausto oppure il timore che il negazionismo dell’epoca si fosse radicato bene negli uomini e venire così additati come menzogneri. Peggio della sofferenza provata nei campi di concentramento ci può essere solo il fatto che quel dolore non solo venga ignorato ma pure screditato.

Ci vollero anni prima che una buona parte di superstiti trovò il coraggio e la forza di parlare e descrivere gli orrori di quei campi. Alla fine il macigno del silenzio che pesava su molti ha raggiunto un peso davvero insopportabile e si è sentito il bisogno di liberarsene. Il processo di Francoforte del 1963 aveva iniziato a portare alla luce i sconvolgenti fatti, i disumani crimini e i lati all’epoca ancora oscuri sulla persecuzione agli ebrei e forse era riuscito a dare la forza a molte vittime di poter finalmente raccontare le vessazioni subite, nella speranza che finalmente fosse fatta giustizia  non solo nei loro confronti ma anche alla memoria e alla storia.

Tra coloro che ruppero il silenzio troviamo l’intellettuale e letterato Jean Améry. Chi era Jean Améry?

Jean Améry, il cui vero nome era Hans Chaim Mayer, nacque nel 1912 in Austria da padre ebreo non praticante e da madre cattolica. Quando l’Austria nel 38 venne annessa alla Germania Jean emigrò in Belgio dove entrò a far parte di un gruppo rivoluzionario anti-nazista. Questa presa di posizione lo portò a essere catturato e quindi, dopo essere stato sottoposto a torturato da SS e Gestapo, deportato nel campo di concentramento di Auschwitz passando prima per quelli di Buchenwald e Bergen – Belsen.

Quando nel 1945 fu liberato decise di trasferirsi in pianta stabile a Bruxelles e rinnegare le sue origini tedesche. Fu proprio in questa circostanza che “ucciseHans Mayer e diede vita al “francofono” Jean Améry. Ma a parte questo cambio radicale, non affrontò mai pubblicamente la sua esperienza della Shoah. Questo, come precedentemente detto, fino a quando non ebbe, in quel di Francoforte, inizio il grande processo ad Auschwitz.

Quella fu probabilmente una scintilla che diede a lui l’impulso di rompere il suo silenzio e scrivere un primo articolo sull’esperienza del Terzo Reich. Un articolo dedicato alla figura dell’intellettuale ad Auschwitz. Ma non si fermo qui. Fu proprio quell’articolo a portare nel letterato la convinzione di essere riuscito a infrangere un tacito proibizionismo che si era creato sull’argomento. Sentì così l’esigenza di dire tutto quello che aveva vissuto e visto. Nacque così il suo libro “Intellettuale a Auschwitz”.

Jean Améry muore suicida a Salisburgo nel 1978 ma libero da quel peso del silenzio personale che ha vissuto per vent’anni e libero anche da quel silenzio che la storia, la sua storia e la storia di altri come lui, è stato vittima fino a quando la “voce” della memoria ha saputo reagire e rendere a tutti noti gli orrori dell’olocausto.

Ora sono molteplici le fonti che abbiamo per documentarci su quanto veramente accaduto. Fonti scritte, letterarie, fotografiche e artistiche. Forse, parte del merito è d’attribuire a quel processo di Francoforte conclusosi il 19 agosto del 1965. L’unica cosa certa è che non esiste un silenzio tanto profondo e duraturo da nascondere e ammutolire la memoria e la storia.

 

Christian Gusmeroli

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