Finanza green: banche e investitori premono sull’energia

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Una finanza green è una utopia? Alcuni istituti bancari, accusati di greenwash, stanno elaborando idee, strategie e strumenti per accompagnare il mondo verso la neutralità climatica. Difficile credere che ciò avverrà subito e in tutto il mondo

La finanza oltre che green può essere anche etica? Tra profitto e sopravvivenza, la lotta per il clima è un gioco di squadra. La verità è che se falliamo perdiamo tutti

Lo scrive il Financial Times, in una lunga e interessante inchiesta: la finanza è sempre più green. La notizia può non convincere, soprattutto gli ambientalisti e i critici del capitalismo e della globalizzazione. Con la pandemia sono finiti entrambi sotto la lente d’ingrandimento di opinionisti, economisti, sociologi, giornalisti, virologi e persino psicologi. Tra limiti, vizi e “peccati” tutti concordano sul fatto che il mondo post Covid non sarà (e non deve essere) più lo stesso. Le priorità: la lotta alla crisi climatica, alla povertà e alla disuguaglianza. Se il mondo sia pronto a cambiare in meglio o solo a peggiorare resta la vera incognita.

Aziende e multinazionali sparse per il mondo hanno acquisito negli ultimi anni una maggiore sensibilità ai temi ambientali, la domanda: “È davvero così?”. Come forma di pubblicità ingannevole, il greenwashing è una questione di marketing, di immagine, di reputazione. Un’azienda o una multinazionale può farci credere di essere attenta all’ambiente, che i prodotti che produce e commercializza o il servizio che offre sia “green”. Il greenwashing  fa arrabbiare giovani e ambientalisti.

Non esiste una legislazione che punisce questo comportamento, che lede l’individuo come consumatore e condanna la collettività a combattere invano contro il cambiamento climatico. Gli ambientalisti hanno tutto il diritto di diffidare non solo di quelle pubblicità accattivanti che parlano di “impatto zero”, ma anche di non credere a notizie come quella diffusa dal Financial Times.

Finanza green, la strategia degli istituti di credito internazionali

La State Street Bank International (GmbH) che opera in oltre 100 mercati e in 30 paesi nel mondo – la capogruppo si trova negli Stati Uniti con sede a Boston – qualche anno fa ha sostenuto una petizione presentata dagli azionisti della banca giapponese Mizuho per ottenere maggiori informazioni sugli investimenti. Volevano accertarsi se e quanto fossero in linea con l’accordo di Parigi del 2015. Negli Stati Uniti sempre GmbH ha chiesto alla JPMorgan di riferire quanti e quali prestiti concessi alle aziende garantissero la lotta al cambiamento climatico.




La crisi climatica è anche una questione di soldi. Oltre che di sopravvivenza del sistema finanziario. L’anello di congiunzione tra economia reale e mercati continuano a essere le banche, da sempre accusate di greenwash, perché realmente disinteressate al cambiamento climatico. Per erogare un prestito è sufficiente verificare che l’azienda – o magari l’imprenditore – possa ripagarlo. Anche se sappiamo che il sistema è andato oltre. Il fallimento “improvviso” della Lehman Brothers è tutt’ora il simbolo della spregiudicatezza con cui la finanza può muoversi, incurante del sistema Paese e delle conseguenze sull’economia reale.

Banche e investitori contro il greenwash

Ora però le banche intuiscono che la crisi climatica ha due volti. Uno più tragico in termini di perdita di vite umane e di ricchezza, un altro positivo, perché ha i tratti del cambiamento e di un nuovo profitto. Utile. Per gli istituti di credito e gli investitori la transizione energetica costituisce una grandissima opportunità. Il settore è strategico. Mentre il carbone, il petrolio e il metano restano le fonti fossili da cui dipende il 65 per cento della elettricità prodotta a livello globale, i paesi hanno impegni da rispettare, scienziati che non possono più essere ignorati, territori e comunità da salvare. Perché gli Stati possano raggiungere determinati target e farlo in tempo prima che sia troppo tardi c’è bisogno di massicci investimenti: solare, eolico, idraulico. Idrogeno. Ci separano 30 anni dal 2050 e le banche devono fare la loro parte.

In Europa, diversi istituti di credito – tra cui il colosso Bnp Paribas – hanno deciso di lavorare assieme per cercare di modificare il portafoglio di investimenti e strumenti finanziari con l’obiettivo di rispettare gli impegni di Parigi. Sul tavolo ci sono già delle opzioni, la prima per esempio è elaborare prestiti a tassi estremamente vantaggiosi per le imprese che dimostrino di rispettare certi parametri ambientali, sociali e di governance.  Anche i climate bond rappresentano una buona iniziativa per le banche:  “obbligazioni di transizione” per creare un “ponte” tra le attività attuali di un’azienda e quelle che la stessa si impegna a offrire in futuro per ridurre l’impatto ambientale. Le industrie più inquinanti possono emettere obbligazioni o azioni per aumentare il proprio capitale, un incremento che deve rimanere sempre legato al taglio delle emissioni.

Credere a una finanza etica

Per tutelarsi e liberarsi dalle accuse di greenwash le banche non vogliono che chiunque entri in questi “nuovi mercati”. Senza transizione energetica non ci sarà alcuna lotta a difesa del clima. L’energia è il pilastro della globalizzazione. Ingranaggi e attori sono tanti. Tutti indispensabili. Dall’ambientalista, al gruppo bancario, alla multinazionale al cittadino comune, al piccolo risparmiatore. La crisi climatica è una battaglia che si combatte assieme e non prendere parte è rischioso. Agli Stati il compito di intervenire con leggi e sanzioni. Fare del greenwash un torto collettivo, punendo aziende, multinazionali e imprenditori che fanno credere di volere proteggere l’ambiente è importante. Punire chi inganna, nel modo peggiore.

Chiara Colangelo 

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