Finale di partita è una delle opera più rappresentative del drammaturgo irlandese premio Nobel Samuel Beckett. Si tratta di un dramma manifesto di una “nausea”, una condizione esistenzialistica e nichilista che accompagna la corrente di pensiero artistica internazionale dei principali anni del secolo scorso.
Portare Beckett a teatro è una sfida, è un continuo leggere tra le righe, ma soprattutto al di là di ogni gesto.
Recentemente ho avuto il piacere di poter vedere Finale di partita in scena al Teatro Edwin Piscator di Catania, grazie ad una splendida interpretazione della compagnia Fabbricateatro.
Nelle opere di Beckett, essenzialmente, non succede niente, nello specifico in “Finale di partita” i protagonisti sono pochi, abbiamo Hamm, un anziano signore cieco condannato a trascorrere i suoi giorni su una sedia a rotelle, e il servo Clov costretto a non potersi più sedere a causa di una brutta scoliosi alla schiena. Il rapporto tra i due è conflittuale, dicotomico, basato su continui moti di ribellione, ma soprattutto su una reciproca dipendenza. In scena sono presenti anche i due vecchissimi genitori di Hamm, Nagg e Nell, che sono privi di gambe e vivono in dei bidoni della spazzatura sul fondo della scena.
Un botta e risposta continuo tra i due protagonisti legati da un eterno odi et amo che richiama il simbolismo del gioco a scacchi, del continuo riflettere sulle mosse da mettere in atto che alla fine riconducono ad un preciso scacco matto: il raggiungimento della morto come potenziale annullamento del sé.
La labilità della condizione umana, la continua sofferenza, l’impossibilità di aprire gli occhi e guardare alla vita in modo autentico richiamano alla memoria alcuni importanti studi condotti anche dai pensatori della Scuola di Francoforte (non a caso, Adorno scrisse un saggio sull’interpretazione di Finale di Partita).
Beckett era un eretico, uno che metteva in scena una realtà cruda, fatta di noia ma soprattutto di immobilismo, una staticità che va interpretata non solo a livello fisico, ma soprattutto emozionale.
“La migliore ragione che si può dare per credere [… ], è che così è più divertente. Non credere [… ] è una noia. Noi non ci preoccupiamo di cambiare. Semplicemente non possiamo sopportare di annoiarci. ” Samuel Beckett