DI Isabella Rosa Pivot
La storia dell’uomo è composta di ideologie: ciò che permise, fin dagli albori, la cooperazione di massa e che portò alle attuali società, è la creazione di ordini immaginari che facessero da “collante” tra le genti.
Per far sì infatti, che un numero sempre crescente di persone potesse collaborare e convivere in piena fiducia reciproca, furono necessari – già molto prima della Rivoluzione Agricola – sistemi ideologici che distinguessero “giusto” e “sbagliato”.
Questi sistemi hanno sempre avuto bisogno di dividere le persone in gruppi, organizzandoli all’interno di una gerarchia. Ad esempio, nel Codice di Hammurabi (XVIII secolo a.C.), v’erano tre ranghi e solo il primo fra questi aveva numerosi benefici. Anche la Dichiarazione d’Indipendenza (1776 d.C), benché proclamasse l’eguaglianza fra tutti gli uomini, vedeva pochi al comando e le donne ed i neri privi di qualsiasi potere. Tutte le società esistenti si basano su gerarchie immaginarie e, sebbene cambino nelle modalità e nelle scale di valori, non ve n’è una che – persino ai giorni nostri – non preveda differenze tra le persone che la costituiscono.
Tuttavia, v’è un’unica gerarchia che pervade e unisce praticamente ogni società, in ogni tempo, ovunque sulla terra: quella di genere. In ogni luogo, le genti sono state divise in “uomini” e “donne” e, quasi dappertutto, gli uomini hanno avuto la meglio. La donna è stata lungamente definita poco più di un oggetto in quasi tutte le società arcaiche e… Non solo.
Una disparità che parte dalle ovvie differenze biologiche, per essere stata poi stratificata, con il passare dei secoli, da concetti culturali e norme che ben poco hanno a che fare con la biologia. Quest’ultima è infatti propensa a tollerare uno spettro di possibilità decisamente ampio a differenza della cultura, che impone e proibisce: la biologia consente alle donne di avere bambini e certe culture impongono loro di averne; la biologia consente agli uomini di avere rapporti con persone dello stesso sesso, ma alcune culture proibiscono di attuare tale possibilità. Da un punto di vista biologico, nulla è “innaturale”, perché ciò che è possibile è di per sé, “naturale”.
Non ha molto senso, dunque, sostenere la funzione “naturale” delle donne come, ad esempio, quella di allevare bambini e la maggior parte delle leggi, norme, precetti che indicano le qualità maschili e femminili sono solo l’evidente risultato dell’immaginazione umana. Eppure, eccoci qui.
Se il “sesso” è una categoria biologica, il “genere” è una categoria culturale ed anche una faccenda seria: se per nascere femmina è sufficiente avere un paio di cromosomi X e maschio, averne uno X e uno Y infatti, per diventare donna o uomo è necessario un arduo lavoro. Nessuna società incorona automaticamente ciascun maschio come “uomo” o ciascuna femmina come “donna”, ma bisogna darne continua e costante dimostrazione personale lungo la vita, attenendosi a dei precetti particolari.
Le società patriarcali in cui viviamo, educano gli uomini ad agire in modo mascolino e le donne ad attuare comportamenti femminili, punendo chi attraversa questi confini, ma al contempo non conformando le ricompense a chi segue tali principi. Le qualità cosiddette “maschili” sono infatti più stimate e gli investimenti sono minori per chi incarna quelle “femminili”: insomma, è una gara in cui alcuni corridori possono, già in partenza, ambire al massimo alla medaglia di bronzo. Perché?
Perché il patriarcato è così universale? Proviamo ad analizzare le supposizioni più diffuse.
Vi sono teorie che vertono sull’enfasi della forza fisica, comportando però non pochi problemi ad essere sostenute. In primo luogo, dipende quale tipo di forza prendiamo in considerazione: le donne sono generalmente più resistenti alla fame, alle malattie ed alla fatica, per non dire che nel corso della storia sono state escluse da lavori con sforzo fisico modesto (sacerdozio, attività giudiziaria), a favore di impieghi più pesanti, come l’agricoltura o la conduzione della casa. Inoltre bisogna considerare anche che, tra gli esseri umani, la forza fisica non è mai stata reale fonte di potere: pensiamo al rapporto anziani-giovani o alla sottomissione del forte schiavo al debole e fragile padrone.
Un’altra teoria che vaga nell’etere della differenza di genere, è quella che vede la dominanza maschile come risultato dell’aggressività: le guerre – dunque il potere – sono frutto del genere maschile. Studi recenti corroborano quest’assunto: gli uomini sono più violenti e quindi sarebbero meglio adatti per servire da soldati semplici. Ebbene, ammesso anche che tutti gli uomini ricoprano il ruolo di soldati semplici, non avrebbe senso che ne fossero anche i condottieri: sarebbe come supporre che, siccome, tutti gli schiavi di cotone erano neri, lo fossero di conseguenza anche i loro padroni. Perché dunque non sarebbe possibile avere al comando delle donne? Nel corso della storia, gli ufficiali di alto grado raramente si sono fatti strada dal basso e per dirigere una guerra c’è bisogno di carattere e fibra e non di aggressività. Viene richiesta cooperazione ed elasticità, elementi assegnati – secondo i più comuni stereotipi- tipicamente alle donne. Ergo, un’altra teoria a dir poco sostenibile.
Un’ultima interessante tesi vede, invece, la differenza come risultato di diverse strategie di sopravvivenza: gli uomini, abituati a lottare, sarebbero ormai programmati ad essere ambiziosi e competitivi; mentre le donne, in cerca di protezione per la prole, sarebbero state indotte a dedicare la loro vita all’allevamento dei figli e alla collaborazione. I primi sarebbero quindi più propensi al comando e le seconde alla sottomissione, per evitare ogni possibile pericolo.
Vi sono però molte specie animali, in cui la dinamica tra femmine dipendenti e maschi competitivi sfocia in un matriarcato. Negli scimpanzé bonobo ad esempio, le femmine costruiscono reti al femminile, poiché abbisognano di aiuto esterno, imparando così a cooperare, mentre gli uomini rimangono sottosviluppati perché intenti a combattere tutto il dì. Come può avere senso una teoria che vede gli individui meno cooperativi a prevalere in una società che, per definizione stessa, si basa sulla cooperazione?
Risposte e motivazioni alle differenze sussistenti non esistono. Il divario fra i generi è ancora significativo, ma un’ evoluzione positiva è in corso e sta procedendo ad una velocità disarmante.
Per fortuna, anche quest’immotivata gerarchia sta cedendo finalmente il passo ad una concezione nuova.
Rimane però da porsi una domanda essenziale per poter continuare questo tortuoso cammino verso la parità di genere: se è ormai dimostrato tanto chiaramente che il sistema patriarcale è basato su miti infondati, piuttosto che su reali dati biologici… Cosa giustifica l’universalità, la stabilità e la persistenza di tale sistema ? E com’è possibile che, a differenza di altri cambiamenti storici della società, la parità di genere stia ora procedendo a passo tanto spedito?
Ogni rivoluzione è tale solo se consapevole. Quella contro il sistema patriarcale lo è?