Marta Heyer (Margit Carstensen) è una bibliotecaria trentunenne con un padre di un’antipatia indicibile che sembra addirittura avere disprezzo fisico per lei, una madre succube del marito e alcolizzata, una vita sessuale pressoché inesistente.
Il padre le muore davanti in vacanza in Piazza di Spagna liberandola apparentemente dal peso del carceriere.
Ma non illudiamoci: a seguire, nell’ambasciata tedesca, ci sarà il “cambio della guardia” in cui Martha rimarrà colpita dallo sguardo di Helmut Salomon (Karlheinz Bom), uomo elegante ed ambiguo con una segreta tensione verso il sadismo.
Ironico davvero che questo carnefice che non si slancia nella passione se non in raptus turbolenti, manipola la moglie plasmandola in cera e creta imponendole musica terribile, libri di ingegneria (!) e di non uscire mai di casa sia interpretato dallo stesso attore che aveva ritratto lo zuccheroso Franz Joseph nei film di Sissi con Romy Schneider.
Inutile dire che la tragedia è preannunciata ad ogni piè sospinto, portando ad un climax di esasperazione in cui Martha, tentando di fuggire dal marito, cade nella paranoia e porta sé stessa alla paralisi.
Ora è veramente una bambola.
Questa storia, ispirata dal romanzo For the rest of her life di Cornell Woolrich, ma senza il consenso dell’autore, doveva essere portata sul piccolo schermo in 16mm da uno dei geni del nuovo cinema tedesco: Rainer Werner Fassbinder.
Il film ebbe vari problemi di diritti appunto per la comprensione, da parte dello scrittore, del fatto che Fassbinder si fosse ispirato ad una sua storia senza il consenso esplicito.
Solo dopo la morte di Woolrich i problemi sui diritti vennero abbattuti e vent’anni dopo la lavorazione il film ottenne visibilità ed un restauro considerevole.
E meno male, bisognerebbe dire, anche perché si tratta di un gioiello nell’opera vastissima del regista, che è passato dal teatro al cinema alla tv con una fluidità rara e spontanea.
Prima di David Lynch e dei suoi brividi metafisici, la tv europea ha conosciuto picchi di qualità con Fassbinder e le sue narrazioni sadomasochistiche dell’amore.
Il corpus dell’autore si incentra soprattutto sulla presenza, nelle relazioni di coppia, di una dialettica servo-padrone in cui la dominazione è fatto sentimentale, politico, economico, totalizzante.
In Martha, come se già non bastasse il peso delle manipolazioni, c’è il trionfo di quel meccanismo che in psicologia chiamano gaslighting, ovvero giocare così tanto con la memoria e i sentimenti di una persona da modificarla totalmente e resettarla come si vuole fino all’apatia.
Non è un caso che i grandi melodrammi gotici abbiano ispirato Fassbinder, come Angoscia di George Cukor, il cui nome originale è Gaslight e soprattutto Douglas Sirk, tedesco emigrato in America che ispirò il giovane regista con i suoi film dai colori pastello in cui passione, trash e senso del dovere lottano in ambienti borghesi nel miglior stile anni ’50.
L’omaggio al mito di Sirk avviene durante il verbale all’ambasciata di Roma: è Martha stessa a dire di abitare a Costanza, via Douglas Sirk, come fosse cittadina dello stato del melodramma.
Nel mondo di Martha la luce è traslucida, patinata fino ad essere gelida e penetrante, i corpi sono grotteschi e stilizzati, il décor opprimente fino a far sentire malessere e assenza di respiro.
I movimenti degli attori sono coreografati con una cura maniacale come fossero figure di un orologio a cucù o un carillon macabro, cristallizzate nei movimenti e nella geometria ferrea creata dal fotografo Michael Ballhaus.
Come direbbe Norman di Psycho, It’s so stuffy in here!
Film più di interni che di esterni dove tutto ha il respiro del chiuso, di una gabbia mai aperta, ci fa vedere quanto un Ti amo può essere a volte la porta per una prigionia totale da cui non c’è uscita.
Antonio Canzoniere