Per usare termini dinastici, Luis Buñuel (1900-1983) è uno dei fondatori del regno surrealista insieme ad André Breton, Dalì e Mirò, i quali vedono i loro principi ereditari in Jodorowsky e David Lynch.
Buñuel entra nella cultura europea con la violenza onirica del suo primo film, Un chien andalou, che viene presentato nel 1929 e assalito dalle forze di destra francesi per i suoi attacchi alla Chiesa, il miscuglio di Freud e Marx reso sorgente della sua arte e che lo impone non solo come artista straordinario ma anche sagace animale politico.
Carmelo Bene non amava Buñuel e lo definiva autore borghesissimo, non capendo che proprio in questa sfumatura sociale si può cogliere un’altra ragione per amare il regista spagnolo: questi era figlio di un hidalgo benestante della città di Calanda, conosceva l’ambiente alto-borghese alla perfezione e sapeva cogliere le sfumature, le brutture del ceto medio appunto perché quegli ambienti avevano aiutato la sua formazione e la sua ribellione.
Lo stile di Buñuel è una lezione di sottigliezza e di comportamenti sotto l’ascendente della libido, del desiderio nei suoi lati oscuri (cosa che lo avvicina al De Sade), reso con immagini semplici, secche, con gesti essenziali che a volte lui stesso mostrava agli attori. Celebre è il suo rifiuto del virtuosismo direttamente proporzionale alla carica gestuale dei suoi capolavori.
Uomo sanguigno e passionale, orgoglioso bevitore e latino nell’animo, si definiva piedofilo a causa della sua passione feticista per i piedi e le gambe femminili, protagonisti di intere sequenze nei suoi film più belli.
In continua faida con la censura spagnola e i franchisti, trovò in Messico ed in Francia luoghi perfetti per esprimersi, ma non senza far esplodere in Spagna il “caso Viridiana“: il suo capolavoro del 1961, ispirato ad un testo dello scrittore spagnolo Benito Pérez Galdos, con la sua straordinaria parodia dell’Ultima Cena fatta da rabbiosi e violenti barboni, scatena una bufera nel suo paese natio e porta alla proibizione del film fino al 1977.
In Francia, Viridiana è proiettato al festival di Cannes l’ultimo giorno e un’ultima, tempestiva riunione della giuria decide di dare al film la Palma d’Oro in ex-aequo con il film di Henri Colpi, L’inverno ti farà tornare.
Lo scandalo ribadisce la consacrazione del regista di Calanda: comincia a lavorare con il meglio del cinema francese, attori ed attrici come Jeanne Moreau, Catherine Deneuve, Stephane Audran, Michel Piccoli, Julien Bertheau, Milena Vukotic. Tra i suoi collaboratori si contino pure il direttore della fotografia Sacha Vierny e lo sceneggiatore ed amico fidato Jean-Claude Carriére, che insieme all’attore spagnolo Fernando Rey ci porta verso il nostro obiettivo: Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977).
Rey era già stato uno dei protagonisti di Viridiana nel ruolo del perverso ed impotente Don Jaime e scelto da Buñuel perché in una delle sue comparsate Rey era “bravissimo a fare il morto“. Fatto sta che l’attore non tarderà a diventare un simbolo ed un volto importantissimo nella filmografia del regista.
A Rey, non per niente, il regista di Calanda arriva a pensare per il ruolo di Mathieu Faber, protagonista del suo ultimo film, uomo alto-borghese, elegante, sempre alla ricerca del piacere e che faber, secondo l’etimo, non è per niente.
Il film è ispirato ad un soggetto che affascina Buñuel e Carriére dal 1957: La femme et le pantin di Pierre Louÿs, storia di un uomo manipolato da una donna seducente che lo riduce a burattino delle sue voglie. Nel ruolo della protagonista ci sarebbe dovuta essere Maria Schneider, la protagonista di Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e Merry Go-Round di Jacques Rivette.
La Schneider viene scartata perché incompatibile con la visione del regista e al suo posto Buñuel mette due attrici in alternanza per il ruolo Conchita, giovane ed enigmatica ballerina spagnola, padrona-oggetto del desiderio: le esordienti Angela Molina (figlia del celebre cantante spagnolo Antonio) e Carol Bouquet.
Lo stratagemma non solo punta ad una sinergia fortissima tra due versanti del racconto (soddisfazione-castrazione, amore-odio, tira e molla dei sentimenti e degli istinti) ma anche alla rappresentazione, l’emanazione di due immagini complementari della donna nella mente di Mathieu, in bilico tra la bellezza suadente della tentatrice e la donna castrante, riottosa, enigmatica, sfuggente.
“La donna è mobile / qual piuma al vento / muta d’accento / e di pensiero“: questo vale per il Rigoletto e anche per il film. Ma il fulcro non sta nella misoginia scherzosa del Duca di Mantova quanto nella coscienza, secondo il regista, che il corpo della donna è di per sé un mistero e non può essere totalmente posseduto. Il desiderio è un’altalena ma dopo lo slancio non si vola in alto.
La storia, per la maggior parte, è un flashback che Mathieu racconta sul treno per Parigi a degli sconosciuti, tra cui uno psicologo nano, cui il regista affida una chiave di lettura importantissima: a livello inconscio il caso non esiste.
Perché ogni elemento del film crea una sincronia a livello materiale per ostacolare il desiderio e la sua realizzazione, che a volte sembra amore, a volte voglia di possesso dell’altro che si ribella e che pur sembra amare il suo contraltare.
Il film, che fu l’ultimo del regista di Calanda, fa da testamento supremo, compendio di una saggezza ironica e vibrante sotto il segno dell’economia espressiva, dell’eleganza, la sottigliezza e l’assoluto equilibrio compositivo.
Lanciò la carriera della Molina, tra la più grandi attrici spagnole, riconfermò il talento di Rey e naturalmente punse il pubblico, ignaro dei messaggi e dei riferimenti bunueliani alla vacuità degli uomini e alla gioia della vita, alla libertà del sogno e alla violenza terroristica della società, tra un tocco raffinato francese e la grinta ispanica che caratterizzò la fase d’oro del suo cinema.
Antonio Canzoniere