Filiazione d’anima: quando di madre non ce n’è una sola

Filiazione d'anima

La filiazione d’anima: la lunga tradizione del modello parentale sardo tra adozione e affidamento

La nostra società ci ha abituato a conoscere principalmente un modello genitoriale, generalmente binario ed eteronormato. Quando la relazione genitore-figlio esce da questa prassi tradizionalmente costruita, rischia di essere percepita come insolita. E dunque la sua esistenza diventa un’eccezione singolare, un’anomalia alla regola. Questa consuetudine, socialmente accettata come un dogma, è però ampiamente smentita dalle diverse esperienze che ci mette di fronte la realtà. Ne sono esempio le pratiche di affidamento e adozione, spesso oggetto di discussione politica e civile. Coloro che ancora si scandalizzano di fronte alla possibilità che un figlio non sia cresciuto dai genitori biologici, probabilmente non hanno idea di cosa sia la filiazione d’anima. E di quanto, fino alla seconda metà del secolo scorso, sia stata diffusa nella nostra penisola.



La filiazione d’anima può essere definita come un’affinità elettiva, un’adozione spirituale. Un’affinità spirituale che porta i fillus de anima a scegliere altre figure di riferimento a cui affidare la propria crescita.
Fillus de anima significa infatti “figli dell’anima” e quella di cui sono protagonisti è una realtà antica e molto diffusa che vede la sua più intensa diffusione nella società rurale sarda.
Per la complessità che naturalmente comporta il legame genitore-figlio, ed in particolare la relazione materna, anche la filiazione d’anima è un concetto complesso e articolato. Poco presente nella letteratura e poco dibattuta dai libri di storia, quello che oggi conosciamo della filiazione ci arriva dalla trasmissione orale. E questo permette di addentrarci immediatamente nel tipo di società in cui la filiazione d’anima tra fillus de anima e madri in spirito era diffusa.

Quelle rurali come la Sardegna, infatti, sono comunità la cui vita familiare si intersecava con l’intera collettività. I beni di ciascuno erano beni di tutti. I figli di ciascuno erano figli di tutti.

L’appartenenza di un figlio non si limitava alla sola famiglia d’origine, bensì alla popolazione intera

In questo contesto, si stipulava, come un contratto non scritto, l’accordo di affiliazione. Una collaborazione tra famiglie: quella di origine, solitamente povera, e quella affidataria, più abbiente. L’accordo di co-genitorialità avveniva dapprima tra gli adulti a cui spettava il ruolo educazionale. In seguito, doveva essere espressamente consentito dal figlio d’anima. Significativo il ruolo attivo del figlio che, come spiega bene Michela Murgia, autrice nonché figlia d’anima e madre di spirito, non si divide tra le famiglie ma si moltiplica.

Dalla collaborazione, nascevano per il fillus de anima nuove possibilità non solo economiche ma anche culturali. Accolto dalla nuova famiglia, infatti, al figlio erano date opportunità che altrimenti non avrebbe mai avuto: perseguire gli studi, ambire ad una classe sociale più agiata.
Non solo, diversamente dalla filiazione d’anima propria di altri territori, ai figli d’anima sardi spetta anche parte dell’eredità.  Seppur senza alcun vincolo giuridico, i fillus de anima accettano di ottenere privilegi ma anche di osservare alcuni obblighi nei confronti della seconda famiglia e della propria madre in spirito.

Comprendere la dimensione in cui la filiazione d’anima si perpetua è interessante se si pensa al modo esclusivista di vivere la genitorialità oggi. Non classificabile come un’adozione, infatti, la collaborazione non formale tra le parti si basa esclusivamente sulla fiducia e l’affinità. Una tradizione che che privilegia un’empatica somiglianza piuttosto che la mera discendenza biologica. Scardinando così la retorica comune secondo cui mettere al mondo un figlio significa essere naturalmente e obbligatoriamente inclini a crescerlo e a fare il suo bene. Insomma, una tradizione che – a ben vedere – potrebbe avere un’interpretazione tutt’altro che antica.

Carola Varano

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