La fiducia è un atteggiamento umano necessario agli individui, per condurre una vita serena ed equilibrate, e alla società, per conservare i propri principi democratici. L’epidemia in corso, però, innestandosi su una già preesistente crisi, rischia di far saltare completamente la nostra capacità di fidarci. Rendendo, di fatto, la nostra una società peggiore in cui vivere. Cosa si può fare? Lo abbiamo chiesto a Maura Gancitano, che ha delineato – ragionando su ciò che sta accadendo – alcune pratiche e istruzioni per il buon uso della fiducia.
Cos’è la fiducia per la nostra società e, soprattutto, come dovremmo regolarci rispetto a essa? Si tratta di una questione complicatissima, che lo scrittore Alessandro Perissinotto ha nitidamente riassunto così:
ogni giorno […] per vivere, noi compiamo una serie infinita di atti di fiducia. Ci affidiamo agli altri. […] Diamo fiducia non perché lo vogliamo, perché davvero ci fidiamo, ma perché non possiamo farne a meno. E non è vero che la fiducia si dà solo alle cose serie: la fiducia si dà a tutto e tutti, per obbligo. Perché la fiducia ci fa vivere. E morire.
La fiducia negli altri e nel mondo che ci circonda è essenziale alla nostra vita. Ma è anche – quando la si guarda con attenzione – un atteggiamento vertiginosamente rischioso. Un rischio che in molti, già da prima della pandemia, erano sempre più restii ad assumere, tanto nei rapporti privati quanto in quelli pubblici. Come cittadini, ad esempio, tendenzialmente si diffidava di giornalisti, economisti e politici. Il Covid-19 in questo contesto ha agito da catalizzatore, portando a galla tutte le linee di frattura che percorrevano la nostra capacità di fidarci.
A fare le spese di questo fenomeno in misura maggiore sono stati gli operatori sanitari, i decisori politici e chi era accreditato come “esperto”. Tuttavia, la crisi della fiducia ha investito ogni aspetto della società e del vivere quotidiano. Dai rapporti di buon vicinato al modo in cui si concepiscono la cultura e il pensiero scientifico-tecnologico, nulla è rimasto immune. Con Maura Gancitano, filosofa fondatrice di Tlon con Andrea Colamedici, abbiamo provato a capire cosa sta succedendo al capitale sociale inestimabile che è la fiducia. E come, attraverso piccole scelte quotidiane di resistenza, ricostruirlo e tutelarlo, per riprenderci la nostra vita e coltivarla insieme.
In un momento difficile come quello che stiamo vivendo, credo sia particolarmente importante continuare a prendersi cura di sé. Una cosa che – mi sembra di poter dire – oggi appare ancora più difficile che in passato. Da diversi anni, in Tlon tu ti occupi proprio di fioritura personale: che cosa s’intende con questa espressione? E, soprattutto, quale rapporto ha con il fidarsi?
«Il nostro lavoro è cominciato come presa di posizione critica rispetto alla superficialità di una certa spiritualità. Una spiritualità “da supermercato”, non a caso legata a specifiche pratiche commerciali. Ci interessava capire – e abbiamo provato a farlo attraverso una ricostruzione storica – come si sia arrivati a questo modo di sentire e a queste pratiche. E ci siamo resi conto che la filosofia rappresentava uno strumento inestimabile per offrire una risposta alternativa al bisogno su cui quelle pratiche si fondano. Perché la riflessione filosofica consente di lavorare a livello conoscitivo ed emozionale le domande che le persone portano con sé. Per definiamo “fioritura personale” un percorso di coltivazione di sé che si serva degli strumenti che essa offre. Anche se l’immagine in sé non è nuova. Infatti, ritorna nella psicologia positiva così come in molte teorie filosofiche quando si parla di (ri)definire il proprio percorso.
Per quanto riguarda il rapporto tra fioritura personale e fiducia, sicuramente per coltivare sé stessi occorre nutrire e costantemente alimentare la fiducia in sé stessi. Così come, naturalmente, una fiducia – almeno minimale – negli altri; cosa cui, oggi, si resiste moltissimo. Nel nostro ultimo libro, Prendila con filosofia, io e Andrea abbiamo provato proprio a smuovere questa resistenza. Come? Essenzialmente, adottando un approccio giocoso (è un testo fortemente interattivo) che, con tecniche vicine alla bibliomanzia, propone alcuni esercizi pratici. Questi esercizi mirano anche a mettere chi legge in condizione di provare ad affidarsi consapevolmente al testo (e non solo). La sfida è quella, esercizio dopo esercizio, esperienza dopo esperienza, di provare a cambiare la propria postura esistenziale. Adottandone progressivamente una più aperta, curiosa del mondo e degli altri, disponibile alla ricerca di senso e ad esplorare anche attraverso l’affettività.»
Una sfida tutt’altro che semplice! Anche perché questa postura, già difficile nelle relazioni interpersonali vissute in un contesto fisico condiviso, mi sembra trovare vita assolutamente ardua nelle interazioni in rete. I social network, in particolare, sono stati additati un’infinità di volte come volani formidabili dell’atteggiamento di sospetto imperante. Il giornalista Antonio Sgobba, ad esempio, ne La società della fiducia evidenzia come la pletora di voci sui social ingeneri un inquietante paradosso. Se il pluralismo è sempre stato una garanzia di un dibattito democratico, in questo contesto esso risulta invece terreno fertilissimo per manipolazioni di ogni genere. Al punto da risultare, in Paesi come Russia e Cina, il braccio destro della censura grazie alla creazione di account falsi e fake news. Ora, pur lasciando l’accesso alla voce il più possibile capillarmente diffuso, come si potrebbe mettere un freno a tutto questo per coltivare la fiducia?
«Da prima della pandemia, in effetti, la democrazia liberale era in piena crisi: il Covid non ha fatto che amplificare mostri presenti e non gestiti. Per quanto riguarda la comunicazione, soprattutto quella sui social, la questione è veramente complicatissima. Il livello del dibattito pubblico in Italia è vergognoso, sono state sdoganate pratiche e terminologie aberranti. Per opporsi a questo, penso sia fondamentale tener presente i principi cardine della democrazia. Il pluralismo è irrinunciabile, come però è irrinunciabile la capacità di informarsi correttamente. Del resto, essendo impegnata da tempo nel monitorare e combattere l’odio in rete, penso che occorra una legge per descrivere e sanzionare determinati fenomeni. Tuttavia, una legge non è sufficiente in sé: è un cambiamento culturale quello che deve avvenire.
Pensiamo a quanto abbiamo visto in questi mesi: mancanza di fiducia, complottismo, negazionismo e ai loro effetti. Sarebbe importante una riflessione profonda sulla comunicazione. Quella sui social, certo; ma anche quella della politica e delle istituzioni, che hanno favorito il proliferare di varie teorie strampalate. Questo evidenzia trasversalmente, in quasi tutta la popolazione italiana, una disastrosa mancanza di consapevolezza in merito a certi temi. Al bagaglio culturale comune mancano i più basilari rudimenti di logica. Non ci viene insegnato come valutare le notizie, né come comprendere, interpretare e considerare le diverse interpretazioni dei dati. Non sappiamo nulla della storia della medicina, ci mancano gli strumenti per capire cosa stia succedendo. E, perlopiù, non ne siamo nemmeno consapevoli. Per questo sostengo la necessità di un cambiamento culturale che ci porti oltre quella che potremmo definire, sulla scia di Habermas, “razionalità digitale”. Permettendoci di riportare sulla scena il discorso vero.»
In che senso “il discorso vero”?
«Parlando di “razionalità digitale”, intendo quella all’origine di un modo di reagire agli eventi sulla base delle pulsioni, dei dogmi, delle false credenze. Sulla base di tutto, cioè, fuorché del discorso. Quello che manca al dibattito, in misura spaventosa, è il discorso vero: un discorso fondato su contenuti solidi e argomentato con competenza e buona fede. Ora, da questo discorso io credo non si debba escludere nessuno. Nel caso della pandemia, è giusto che parli chi è competente, come medici e immunologi; tuttavia, i cittadini devono avere il diritto di porre domande e manifestare le proprie perplessità. Il grave problema è, come dicevo poco fa, che purtroppo in generale mancano gli strumenti per valutare correttamente le proprie informazioni e i punti oscuri. Sicuramente, però, sperimentare pratiche (ed etiche) discorsive diverse da quelle, imbarazzanti, che abbiamo visto gioverebbe alla costruttività del dibattito e a un incremento della fiducia.»
Da quanto dici, soprattutto rispetto alla povertà di strumenti critici per informarsi e confrontarsi correttamente, appare evidente che c’è molto lavoro da fare. Il treno degli eventi, però, è in corsa: non possiamo mettere la realtà in pausa mentre si promuovono questi strumenti. Che cosa si può fare, allora, per riuscire a produrre un effettivo cambiamento e che cosa, in quanto cittadini, possiamo chiedere alle istituzioni?
«Per quanto riguarda le istituzioni, credo che siano stati commessi tre grandi errori durante questa pandemia. Il primo riguarda l’accessibilità dei dati: ancora oggi, i dati sulla pandemia non sono pubblici, consultabili e unificati. Anche perché le modalità di raccolta e archiviazione possono variare sensibilmente da comune a comune, cosa che evidenzia le inefficienze della pubblica amministrazione in merito. Il secondo riguarda la comunicazione: il precedente governo è stato confusionario e spesso ha ecceduto, questo invece è addirittura troppo avaro. Entrambi gli atteggiamenti danno adito a malintesi, generano confusione e alimentano la sfiducia. Infine, credo si sia fallito nell’immaginare una diversa e più costruttiva strategia di gestione della situazione. Ciò che, come cittadini, possiamo e dovremmo chiedere alle istituzioni è un’assunzione di consapevolezza e di responsabilità rispetto a tali errori, affinché non siano ripetuti.
Per quanto riguarda la nostra condotta, pur essendo vero che il treno è in corsa e non può essere fermato, qualcosa che possiamo fare c’è. Anzitutto, cercare fonti autorevoli da cui informarci e sforzarci di capire cosa sappiamo e cosa no in merito a determinati fenomeni e problematiche. In secondo luogo, dotandoci di questi strumenti critici dovremmo cercare di creare una sorta di “contagio positivo” attraverso un confronto aperto ma documentato.
Sarebbe nascondersi dietro un dito, però, negare che rispetto alla filosofia e al pensiero critico in rete avviene qualcosa di paradossale. Vale a dire, esistono comunità che sostengono varie forme di complottismo che si appropriano di figure o argomentazioni filosofiche distorcendole strumentalmente. Accusando chi cerca di capire accordando fiducia a fonti autorevoli e dati raccolti in modo corretto di “non farsi domande” e seguire la massa.»
E dunque come si può fare a costruire un confronto costruttivo con queste persone? Come si ragiona con un complottista?
«È senz’altro molto difficile. Anzitutto, bisogna cercare di capire come e perché un complottista diventi tale. Un complottista è all’origine una persona che si fa delle domande e cerca delle risposte ai propri dubbi. Il problema è che generalmente è assorbito in una bolla di opinioni non sufficientemente documentate che si sostengono a vicenda nella sua cerchia. Se una notizia rimbalza da una bacheca all’altra e da un gruppo all’altro di persone che, condividendo la sua idea, sono affidabili, allora dev’essere vera. Questo ragionamento, viziato da un bias di conferma e di uno di significatività del campione considerato, spesso viene ritenuto sufficiente a condividere senza approfondire.
Inoltre, talvolta l’appartenenza a una certa cerchia che condivide le medesime opinioni assume caratteri quasi settari. Chi la pensa diversamente, così, diventa un nemico: una docile pecora che segue il gregge o un “servo del potere”. Questo fa diventare il confronto molto complicato, stroncandolo sul nascere o rendendolo estremamente logorante.
Anche perché, va ricordato, il contesto in cui questo confronto avviene è comunque la società di massa. Una società nella quale, ormai da oltre un secolo e mezzo, è sempre più difficile distinguere il vero dal falso. Ce ne rendiamo conto oggi in modo particolarmente evidente, per esempio con i deep-fake e i montaggi fuorvianti. Eppure, relativamente parlando, la nostra difficoltà a individuare riferimenti certi e degni di fiducia non è storia recente.
E nemmeno aiuta, a mio parere, un approccio “integralista” da parte di alcuni esponenti della scienza. Mi è capitato, giorni fa, di sentire un esponente del mondo della ricerca affermare che “la politica deve obbedire alla scienza”. Prese di posizione di questo genere sono inquietanti, perché dimostrano quanto non si comprenda la complessa rete di equilibri tra sapere, potere e società civile.»
Una volta comprese le origini del fenomeno, però, come lo affrontiamo?
«Dedicando, specialmente se si tratta di persone a noi vicine o che conosciamo abbastanza, tempo e pazienza a un confronto. Cercando di mostrare fonti alternative e dati, facendo vedere dove l’argomentazione non regge. Soprattutto,non stancandosi di dialogare. E senza credere, soprattutto se si proviene da una certa disciplina o da una certa professione, di essere gli unici ad avere voce in capitolo.
Si tratta, essenzialmente, di una questione di etica della comunicazione. Un’etica per la quale, personalmente, non ho decaloghi, ma solo l’esortazione a una pratica quanto più attenta e onesta possibile.
Sui social, così come fuori, ci sono molte diverse morali che possono confliggere. La loro pluralità andrebbe tutelata in quanto risorsa per la democrazia. Come? Anzitutto, attraverso principi come quello di “carità interpretativa”, secondo il quale bisognerebbe sempre assumere che ciò che l’interlocutore dice abbia un senso. Solo provando a porsi nella sua prospettiva, talvolta, si può arrivare a comprenderlo. In secondo luogo, non limitando e silenziando il dissenso. Badando molto bene, al tempo stesso, a distinguere il dissenso dai discorsi inaccettabili – razzismo, omotransfobia, fascismo e tutte le possibili incitazioni all’odio – che vanno rigettati fermamente.
Perché la libertà di espressione non consiste esattamente nel poter dire tutto ciò che passa per la testa. Questa, purtroppo, è una cosa che il giornalismo e la scena pubblica italiani troppo spesso non ci aiutano a ricordare, perciò vorrei ribadirlo. Libertà di espressione è esprimere la propria opinione in modo fondato e aperto al confronto, assumendosi la piena responsabilità delle conseguenze delle proprie parole. È grazie a questo genere di pratica comunicativa, in pubblico e in privato, che si può sperare di ricostruire la fiducia.»
La fiducia, insomma, come appare evidente dalle parole di Maura Gancitano, è un campo problematico oggi più che mai aperto e spinoso.
La pandemia in corso ci ha resi ancora più sospettosi. L’altro, l’estraneo, con le sue parole tanto quanto con la sua presenza fisica è diventato un (s)oggetto ulteriormente minaccioso, una potenziale fonte di contagio. Il disagio sperimentato nel parlare con qualcuno che sostiene ipotesi strampalate o allorché, riprendendo le nostre routine quotidiane, qualcuno ci si avvicina, non andrebbe ignorato. Meglio sarebbe per noi attraversarlo, interrogarlo, cercare di capirlo e farne autenticamente esperienza. Solo in questo modo, percorrendo le linee di frattura che consumano la nostra fiducia nei rapporti privati e rispetto alla società, possiamo ricostruire la fiducia. Il fidarsi resterà sempre un rischio: nondimeno, di questo rischio abbiamo costitutivamente bisogno come umani: forse la pandemia ci insegnerà ad accettarlo.
Valeria Meazza