Fetonte, l’auriga incendiario figlio di Apollo abbattuto da Zeus

Fetonte - Dominique Lefevre, 1700-1711, Marmo, Victoria and Albert Museum di Londra.

Fetonte è protagonista di un mito poco conosciuto non molto diverso da quello di Icaro. Anche lui era un ragazzo che voleva volare più in alto (e più veloce) di chiunque altro. Il suo fallimento, diversamente da Icaro, si consuma in una folgore. E la sua eternità di cenere si lega, in alcune tradizioni notevoli, al nostro Paese.

Un ragazzino per impressionare i coetanei prende l’auto del padre, un bolide potentissimo, e quando non riesce a controllarlo finisce in tragedia. Sembra un fatto, banale nella sua atrocità, di cronaca contemporanea. E infatti ultimamente si sta parlando tantissimo di un fatto simile con un bolide a noleggio. Eppure, questa scarna trama è anche quella di un mito antichissimo. Cioè quello di Fetonte, giovane figlio di un dio che tentò, senza riuscirvi, di governare il carro del Sole. E che, fallendo, secondo alcune versioni legò il proprio nome all’Italia per sempre.




Le origini e l’infanzia di Fetonte

Sulle origini di Fetonte non c’è accordo unanime nel mito antico. Secondo alcuni, come Nonno di Panopoli, il ragazzo era figlio del titano solare Helios e della ninfa oceanina Climene. Questa origine a Nonno veniva forse da Pindaro, che però individuava in Rodo, la ninfa dell’isola di Rodi, la madre di Fetonte. Lo scrittore romano Igino riteneva che il giovane fosse figlio di Climeno, re della Beozia a sua volta figlio del Sole, e della pleiade Merope. Infine, per Ovidio Fetonte era figlio dell’oceanina Climene, sì, ma soprattutto di Febo Apollo, identificato con il Sole.
Quali che fossero le sue origini, comunque, risulta evidente che il sangue di Fetonte si legava inevitabilmente alla luce solare. Una discendenza che, come accadeva spesso nel mito classico, segnava anche un destino.

La prefigurazione di questo destino, del resto, si ha nella versione del mito raccontata da Nonno nel ventisettesimo libro del suo capolavoro, le Dionisiache. Qui il poeta racconta i giochi di bambino di Fetonte, soffermandosi su due momenti in particolare. Il primo riguarda l’abitudine del piccolo, mentre cresceva in Trinacria, di costruire modellini sempre più dettagliati del carro del Sole. Fetonte ne era quasi ossessionato, tanto da costruirli e ricostruirli per renderli in massimo grado somiglianti all’originale. Il secondo, invece, fotografa il piccolo Fetonte lanciato nel cielo più volte dal nonno Oceano tra risate e capriole. Fino a che a un certo punto il bambino, per provare l’ebbrezza del precipitare, non schivò ricadendo le mani dell’avo, tuffandosi nel mare sottostante. Un volo lunghissimo e forsennato, anche se privo di conseguenze, che doveva anticipare quello definitivo, una volta diventato grande.

La corsa sul carro del Sole

Secondo il mito, Fetonte ricevette dal coetaneo Epafo, figlio di Zeus e futuro re d’Egitto, una sfida a provare la propria discendenza. Per questo, lasciata la propria terra, si diresse a Est, per incontrare Apollo e chiedergli di confermare il proprio sangue. Il dio, commosso dall’orgoglio, dalla fermezza e dal coraggio del ragazzo, acconsentì a fare tutto il necessario per dimostrare di essere suo padre. Fu forse proprio la commozione a far dire al dio del sole una parola di troppo nell’impegnarsi. Le parole “qualsiasi cosa” sono un’arma tagliente nelle mani di un mortale. Ma ormai aveva giurato. Per questo, quando Fetonte gli chiese di poter guidare da solo il carro solare, pur protestando e cercando di mettere il giovane in guardia, Apollo non poté sottrarsi.

Così, mentre Fetonte indossava l’elmo e le vesti di Apollo, Eosforo, la divinità della luce che annuncia l’alba, aggiogò i cavalli. Ma non appena il mortale mise il piede sul carro e prese le redini, il suo destino fu segnato. Non erano, quelli, cavalli mortali: avrebbero risposto solo a un dio, perché solo un dio aveva la forza per trattenerli. E Fetonte non era un dio.

Imbizzarriti e senza controllo, i cavalli di Apollo portarono il carro del sole vicinissimo alla terra, prosciugando fiumi e bruciando le foreste dell’Africa. Fu allora, secondo il mito, che la pelle degli Etiopi si tinse di nero. Dopodiché, essi scartarono e proseguirono la propria corsa verso il cielo, incendiandolo e dando origine alla Via Lattea. Apollo, intanto, si sgolava cercando disperato di dare a suo figlio delle indicazioni su come fermare quella macchina di morte. Ma il carro proseguiva la sua corsa, ingovernabile. Alla fine, per quanto addolorato, dovette essere Zeus a fermarlo, sconvolto da tanta distruzione, colpendolo con una folgore.

Fetonte e l’Italia: i luoghi dello schianto e del culto

Il nome di Fetonte si lega all’Italia nella caduta. Leggenda vuole, infatti, che il ragazzo precipitasse avvolto dalle fiamme proprio nella Penisola Italiana.

Una prima versione del mito, quella di Ovidio, sostiene che Fetonte cadde presso il fiume Eridano, identificato con il Po. Qui, secondo il poeta, venne pianto dalle sue sorelle, le Eliadi, che per il dolore si trasformarono in pioppi, mentre le loro lacrime divennero ambra. E a piangerlo giunse anche il re ligure Cicno. In particolare, Ovidio individua il punto preciso della caduta, dove il cocchio continuò a bruciare per secoli, nel luogo dove il Po incontra la Dora. Lì, molti secoli dopo, sarebbe sorta la città di Augusta Taurinorum, ossia Torino, poi rimasta legata a culti solari.

Un’altra tradizione, invece, vuole che Fetonte sia caduto nei Colli Euganei. La sua caduta, qui, si lega alle acque termali e al culto del dio Aponus. Infatti, si credeva che, avendo sangue divino, il corpo di Fetonte si consumasse più lentamente. E che, bruciando sottoterra, desse alle acque i già noti poteri taumaturgici.

Valeria Meazza

 

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