Il movimento MeToo è scoppiato come una mina improvvisa e ha rotto il patto forzato fra le donne e il sistema patriarcale.
Ora più che mai è tempo per “parlare” di violenza di genere. Non a caso la XIII edizione del Festival della violenza illustrata di Bologna quest’anno ha un titolo emblematico: “Taci anzi parla”. Noi lo abbiamo fatto con la presidente della Casa delle donne, Maria Chiara Risoldi, che ci ha raccontato l’esperienza ventennale come psicoterapeuta e come attivista.
Come e quando nasce la Casa delle donne?
La Casa delle donne nasce nel 1985 con poche operatrici e tanta diffidenza, poche stanze dove raccogliere le forze e cominciare a cambiare l’altra metà del mondo. Inizialmente è solo un nucleo di studio sulla violenza voluto da un gruppo di donne. Le case erano già un modello sorto negli anni sessanta, ma questo gruppo soprattutto viaggia per vedere come funzionano in Inghilterra, in Germania poi anche negli Stati Uniti. Qui a Bologna la Casa viene fondata definitivamente nel 1990 grazie ad una convenzione con il Comune e questo è molto importante perché è un modello unico in Italia. Il Comune fa un progetto che mette a bando e l’associazione delle donne per non subire violenza riesce a vincerlo con dei fondi. La Regione e la Provincia, oggi città metropolitana, forniscono delle case che serviranno per il supporto delle donne. Dunque, per la prima volta, c’è l’appoggio delle istituzioni.
Rispetto ad altre Regioni a che punto è l’Emilia Romagna con il lavoro di rete?
Oggi l’Emilia Romagna si avvale della rete DI.RE. con un coordinamento ben radicato sul territorio. Esiste un DI.RE. nazionale e una sezione regionale; si tratta di una rete che comprende tutte le case esistenti in Italia. Case e centri anti-violenza hanno un proprio modello, ma tutte hanno in comune non il lavoro terapeutico – e questa distinzione è fondamentale – bensì un lavoro politico – culturale; perché la violenza non è una patologia, è un tratto della cultura patriarcale. E’ la relazione fra donne e con le donne che può cambiare le cose. Le operatrici infatti, non sono psicoterapeute, ma sono esperte della politica femminista. Un’eccezione è rappresentata dalla Casa delle donne di Bologna; ed è qui che entro in gioco io come psicoterapeuta. L’elemento professionale interviene per dare un supporto psicologico alle operatrici del centro che hanno un carico emotivo molto pesante. Tuttavia, non tutti i centri anti-violenza lo accettano; alcune case più estremiste sulla linea politica ritengono che sia più che sufficiente la relazione fra donne.
Si sente più psicoterapeuta o più attivista?
Personalmente per vent’anni ho effettuato una supervisione sulla Casa e solo due anni fa mi sono resa disponibile per la presidenza. Il presidente è una figura particolare, perché non può essere dipendente del centro e non percepisce uno stipendio. C’è un onere sostanziale nell’incarico, che acquisisce anche una grossa responsabilità legale; per cui non tutti sono disposti ad impegnarsi in questa battaglia culturale. La direzione politica della casa è dell’associazione, ma io mi sento entrambe le cose, psicoterapeuta e attivista. Avevo visto nascere il primo gruppo originario; vedere nascere e crescere la Casa poi è stato profondamente coinvolgente: oggi ci sono 19 dipendenti.
Abbiamo avuto la legge sullo stalking e quella sul femminicidio, ma cosa manca veramente all’Italia?
Intanto finalmente i reati contro le donne sono chiamati con il loro nome; quando si tratta dell’uccisione di una donna ormai i giornali scrivono che si tratta di “femminicidio”; il fatto che questo tipo di reati sembrino aumentati di numero è legato al fatto che finalmente sono conteggiati come reati specifici. Sul piano culturale, almeno in Emilia Romagna, quando la casa è nata ha suscitato circospezione nei servizi sociali e in tutti i luoghi professionali; oggi le cose sono cambiate e qui a Bologna lavoriamo in stretta collaborazione sia con i servizi sia con le forze dell’ordine. In particolare con i servizi sociali abbiamo un progetto di emergenza in comune. È stato creato il PRIS, cioè un “pronto soccorso sociale” che interviene nel fine settimana per tutti i bisogni, quando i servizi sociali sono chiusi; se chi si rivolge al PRIS è una donna che segnala una violenza, immediatamente il PRIS chiama il nostro numero attivo h 24 e funzionante anche nel fine settimana mettendo a disposizione una casa di emergenza dove accogliere la donna e i bambini, poi dal giorno successivo si valuta il lavoro di intervento. La medesima fiducia si è attivata con carabinieri e polizia, i quali hanno trovato nelle operatrici della Casa un appoggio e un punto di riferimento per accogliere nel modo migliore e anche per la formazione del personale. I punti fondamentali, infatti, per noi sono non giudicare, credere a quello che dice la donna e non metterla nelle condizioni di spavento.
Solo il 12% delle donne sporge denuncia. Perché le donne ancora non denunciano? Quali sono le loro paure?
Perché l’obiettivo delle donne non è quello di denunciare – non dimentichiamo che spesso si tratta di compagni o di uomini con cui c’è una relazione – ma far sì che smettano di essere picchiate. Si tratta di donne che sono affezionate a questi uomini e a volte l’obiettivo “utopico” è che l’uomo cambi, cioè che smetta di picchiarle.
Adesso sono nati alcuni centri dedicati agli uomini; in Emilia ne abbiamo a Ferrara, a Modena e due a Bologna. Per la maggior parte sono stati aperti dalla ASL, ma anche la Casa delle donne si è mossa in questo senso sostenendo l’associazione “Senza violenza”. Si tratta di centri dove si accolgono uomini che picchiano e vogliono essere aiutati ad uscire dalla spirale della violenza, perché capiscono che c’è qualcosa che non va in loro. Il centro di Bologna ha già accolto una decina di uomini. Abbiamo anche un buon rapporto con donne magistrato e molti avvocati che ci seguono. Purtroppo sul piano dei processi siamo molto indietro sia in Italia sia in Emilia Romagna.
Il problema, dunque, rimane sul piano giuridico. Quanto sono state utili le leggi?
I provvedimenti che la legge permette di intraprendere, come per esempio il non avvicinarsi da parte dell’uomo alla donna che lo ha denunciato, non bastano. Peraltro il decreto Pillon è un vero disastro e non migliora una situazione già complessa. In particolare sulla mediazione familiare non distingue fra una separazione normale e una situazione di violenza. È proprio l’impianto giuridico del processo che andrebbe cambiato; la modalità con cui gli avvocati della difesa interrogano le donne continua ad essere fortemente aggressiva, per cui le donne vengono trasformate facilmente in imputato ed è questo anche uno dei motivi per i quali non vogliono subire il processo né certi interrogatori. La tutela dei minori poi è relativa; tutti gli orfani dei femminicidi lasciano dei bambini allo sbando, nelle case – famiglia o sotto un programma di affido, passando da una famiglia all’altra. Bisognerebbe rifare tutto il diritto penale e civile perché costruiti con un impianto maschilista: la legge è fatta dagli uomini e per gli uomini. È chiaro che qualche aggiustamento qua e là non basta, considerando che ci abbiamo messo vent’anni per arrivare, solo nel 1996, ad una legge che considerasse la violenza un reato contro la persona e non contro la morale. E oggi il caso irlandese dell’assoluzione del violentatore solo perché la donna portava il tanga o casi come lo stupro da parte dei carabinieri nei confronti delle due ragazze americane a Firenze, di cui peraltro non si parla più, la dicono lunga su come vadano ancora le cose nel mondo.
Deve cambiare l’educazione delle madri vero i figli maschi?
Siamo pienamente dentro la cultura patriarcale e la trasmissione che passa da madre in figlia o da padre in figlio è fatta ancora di messaggi stereotipati. Si deve dunque agire sull’educazione; se anche una madre riesce ad allevare un figlio maschio senza farlo sentire “sua maestà” ciò che è importante è soprattutto l’esempio del padre, come tratta la madre. Le neuroscienze, infatti, ci spiegano che le parole non contano, bensì il guardare e imitare modelli positivi garantiscono ai figli un’educazione corretta.
Recentemente ha pubblicato il libro #MeToo. Il patriarcato dalle mimose all’hashtag.
La ragione per cui ho scritto è proprio perché si sottovaluta moltissimo la trasmissione da una generazione all’altra. Si sottovaluta il principio fondante del patriarcato, cioè che la donna è inferiore all’uomo; così ci sono uomini che continuano a rivolgersi alle donne spiegando loro le cose, come se fossero delle bambine. La Casa delle donne, in proposito, ha un servizio dedicato alle scuole e nell’ambito del festival, l’evento culturale più importante, c’è una sezione rivolta agli studenti delle scuole superiori. Sono convinta che il MeToo sia il risultato di decenni di lavoro dei centri anti-violenza; che sia partito da Hollywood e che siano state proprio le attrici le quali normalmente usano il loro corpo per lavoro e quindi complici di ricatti sessuali nel mondo del cinema, il fatto che abbiano detto “basta”, sul piano simbolico è di un’importanza enorme: adesso, anche se tardi, hanno rotto il patto. Con il MeToo il mondo della politica è stato messo sotto accusa.
Anche la sinistra ha contribuito al ricatto patriarcale?
Con Berlusconi le cose erano a viso aperto. Il femminismo che nasce da Potere Operaio e Lotta Continua, ha dovuto anch’esso lottare contro il ricatto. Tutte le ragazze che non si rendevano disponibili per gli operai, i leader o i capi erano considerate delle “borghesi”. I primi collettivi italiani nascono proprio per questo. Le donne purtroppo sono state sempre complici per fare carriera, nella sinistra, nella destra e nel centro. Nel mio libro cito anche le donne “negazioniste”, cioè quelle che non sono consapevoli della differenza e si ostinano a negare il problema: sono le peggiori complici del patriarcato. L’ipocrisia dentro i partiti, in parte ha cominciato a spezzarsi con le quote rosa.
Qual è oggi il vero pericolo per le donne?
Il pericolo è sempre lo stesso. Il “se l’è cercato” è ancora molto diffuso, però un cambiamento che la Casa può dichiarare è che oggi le donne tollerano di meno le botte ed è dunque diminuita la complicità. Sono colpite tutte le estrazioni sociali, ma è chiaro che le donne con maggiori risorse possono rivolgersi ad uno psicoterapeuta privato, seppure recentemente anche gli psicologi, per la delicatezza delle situazioni, tendono ad appoggiarsi ai centri anti-violenza. È particolarmente aumentata la presenza di ragazze straniere che non vogliono soggiacere a matrimoni combinati. Di certo il vero pericolo sono la disoccupazione, la miseria e la crisi economica, laddove sono le donne per prime ad essere espulse dal mercato del lavoro o non ci arrivano proprio per la presenza dei figli. Il come stanno le donne dà la misura di come stia una società. Le donne italiane non stanno bene rispetto alle europee: l’occupazione generale è bassa, c’è pochissimo sostegno alla maternità, a parità di titoli di studio siamo pagate meno, le molestie sessuali sul lavoro restano un problema enorme».
Jenny Canzonieri