Come si radica un immaginario razzista e, soprattutto, che si può fare quando è già in vigore? Il linguista Federico Faloppa, da poco in libreria con Sbiancare un etiope: la costruzione di un immaginario razzista (UTET, 2022), ce lo ha spiegato in questa intervista.
Federico Faloppa (1972) è docente di Sociolinguistica e di Storia della lingua italiana presso l’Università di Reading. Addottoratosi presso la Royal Holloway di Londra, ha insegnato non soltanto in Inghilterra ma anche in Spagna e in Italia, specializzandosi sulla costruzione linguistica della diversità. Che il linguista non tema di confrontarsi con argomenti spinosi quali lo stereotipo etnico e la violenza verbale, del resto, risulta evidente dalla lista delle sue pubblicazioni. Basti ricordare, ad esempio, Razzisti a parole (per tacer dei fatti) (2011) e #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole (2020).
Di recente, abbiamo avuto l’occasione di recensire il suo ultimo libro, Sbiancare un etiope (qui la recensione). La lettura di questo saggio ha stimolato diverse riflessioni, tutte concentrate intorno al nucleo di un interrogativo. E cioè: in che modo lo studio, la ricerca e il pensiero critico sul linguaggio potrebbero contrastare un immaginario razzista? Per trovare risposta a questa domanda, lo abbiamo chiesto direttamente all’autore del testo.
Anzitutto, un sincero grazie a Federico Faloppa per la sua disponibilità a rispondere alla nostra intervista. La lettura del suo libro ha stimolato molte domande, ma una s’impone su tutte. Ossia: una volta ricostruiti le radici storiche e il radicamento dell’immaginario razzista del nero “da sbiancare”, che facciamo di questa conoscenza? Certo, essa ci permette di capire come siamo arrivati qui; può anche indicarci, però, i successivi passi etici e politici da compiere?
Federico Faloppa:
«Credo che a questa domanda esistano almeno due risposte.
La prima riguarda il piano metodologico. Infatti, non si capisce l’oggi, la potenza e la forza di alcune immagini dell’oggi, se non si fa uno scavo completo e complesso nel passato. Bisogna cercare di capire come sono nate queste immagini, come sono state costruite, come si sono tramandate. E anche quali sono stati, spesso, i cortocircuiti di senso che hanno attraversato. Questo è, a mio parere, uno degli elementi chiave delle battaglie antirazziste.
Sul piano dei contenuti, anzitutto questa ricostruzione ci rende consapevoli che questa immagine è difficilissima da sradicare proprio perché ha una lunga vicenda alle spalle. È un topos radicato, talora anche carsicamente ma non per questo con meno forza, nella nostra storia culturale. Se vogliamo sperare di agire su di esso, della forza di questo legame dobbiamo prendere atto.
In secondo luogo, possiamo farne uno strumento per decostruire, depotenziandola, l’idea che sia necessario uno “sbiancamento”. Possiamo studiare questa idea e capirla proprio come primo passo per riuscire a metterla da parte. Per smettere di pensare che ci sia un criterio estetico, un’immagine vincente sulle altre. Si tratta di un passo necessario per avviarsi a eliminare anche tutto ciò che a questa immagine gira intorno ancora oggi.
Ad esempio i prodotti sbiancanti, che costituiscono un mercato floridissimo in parte dell’Africa e dell’Asia, oltre che nelle periferie delle grandi città europee. Si tratta di prodotti estremamente dannosi per la salute, eppure le persone li acquistano. Perché l’immaginario è ancora lo stesso, il canone estetico è dominato dalla pelle chiara. Ma si tratta di un’estetica che non corrisponde più alla complessità e al pluralismo della società contemporanea. E che perciò va rigettata, perché contraria all’inclusività che dovrebbe caratterizzare la convivenza civile.»
Il lavoro di scavo nell’immaginario culturale che Lei descrive sembra ricordare una psicoterapia. In particolare, mi ricorda da vicino quegli indirizzi che esortano a diventare consapevoli dei propri traumi per disinnescare i meccanismi patologici del comportamento. Dunque che rapporto esiste tra l’immaginario e la vita di ogni giorno, con le scelte che gli individui compiono?
Federico Faloppa:
«Quelle di cui parliamo non sono semplici immagini. Sono archetipi di lunga durata. E sono motivi traumatici in quanto per secoli sono serviti a giustificare l’assoggettamento. Dunque sì, agire su questi archetipi può essere un modo di confrontarsi col trauma. Nonché di non infliggerlo o aggravarlo.
Oggi la scelta sul piano individuale si percepisce soprattutto da parte di chi ha subito quel trauma. Penso agli scrittori e alle scrittrici cosiddetti “di seconda generazione” come Adichie o Hakuzwimana, che hanno raccontato lo stigma. È una scelta che aiuta chi è vittima di discriminazione a trovare strumenti per combatterla.
Sul piano collettivo e politico, d’altra parte, occorre rendersi conto di quanto lavoro resta da fare. È imprescindibile il racconto dei contesti, ma lo è altrettanto la decostruzione storica dei motivi di lunga durata, per capire perché siano ancora così solidi. Studiandoli nella loro casistica, occorre comprendere come non basti uno slogan o una battaglia per abbatterli. La decostruzione deve essere molto più profonda. La decolonizzazione del pensiero non può essere soltanto una battaglia del Novecento o degli ultimi anni. Deve andare indietro nel tempo e arrivare alle radici di quell’immaginario, raccontandolo nelle scuole. Occorre far capire perché una maggioranza bianca usi un’immagine e, al tempo stesso, che il fatto che la maggioranza la utilizzi non significa che sia legittimo.
In un certo senso, quindi, sì, dobbiamo davvero lavorare sull’inconscio. È come se dovessimo aprire un grande inconscio collettivo. Perché solo così potremo affrontare il trauma che portano con sé delle immagini cui magari non facciamo caso (come avviene nel caso di alcune pubblicità). In questo modo potremo affrontare in maniera razionale una battaglia imprescindibile sul piano etico, politico ma anche estetico in corso nella nostra società.»
Nei suoi libri, tuttavia, Lei chiarisce anche come “decolonizzare l’immaginario” non significhi falsare la lettura dei testi del passato. Si tratta di una presa di distanza da quella che prende il nome di cancel culture?
Federico Faloppa:
«La cancel culture è un tema molto complesso.
Va tenuto presente, anzitutto, che il termine stesso “cancel culture”, un po’ come “politicamente corretto”, ha subito una manipolazione. Quest’espressione è nata a destra. E generalmente è utilizzata dalla destra per evitare di discutere determinate problematiche.
Si pensi, ad esempio, a chi risponde alle critiche riguardanti le proprie pratiche discorsive lamentandosi che non sia più garantita la libertà di espressione. Generalmente, sono editorialisti che scrivono sui quotidiani, o figure pubbliche che tuonano da un profilo social. Paradossalmente, chi dice che non si può più dire niente ha tutti gli spazi per dirlo.
Il termine “cancel culture” mira a stigmatizzare delle forme di protesta originatesi negli Stati Uniti una ventina di anni fa. In origine, si trattava di boicottaggi ai danni di prodotti e figure pubbliche responsabili di una comunicazione lesiva della dignità di una certa comunità. Tuttavia, i modi e i contesti della protesta sono stati diversi tra loro nel tempo.
Mi sia lecito proporre un esempio tratto dal contesto in cui vivo. Nel 2020, dopo diversi tentativi, a Bristol è stata abbattuta la statua di uno schiavista. L’abbattimento della statua, però, non è nato da un impeto della cancel culture. È stato l’esito di proteste pluriennali da parte di una comunità che non si riconosceva nell’immagine di un mercante di esseri umani. E dunque è arrivato al culmine di un processo di presa di consapevolezza maturato nel dibattito pubblico, che ha anche tentato di coinvolgere la municipalità.
Precisato questo, penso che occorra resistere alla tentazione di farsi coinvolgere in un dibattito polarizzato totalmente a favore o a sfavore della cancel culture.»
In che senso?
Federico Faloppa:
«Secondo me la soluzione risiede proprio in un’altra strada. Il punto non è schierarsi con o contro la cancel culture, ma interrogarsi su da dove nascano determinati movimenti e in quali contesti . Nonché da dove arrivino le immagini contro cui prendono posizione.
Bisognerebbe anche chiedersi cosa si possa fare per collaborare con una certa comunità. Interrogandosi se in un certo contesto siano presenti immagini e simboli che risultano violenti per certe persone. Per esempio, la statua di un razzista è evidentemente violenta per chi ha subito il razzismo o il colonialismo. E magari non vorrebbe vedersela davanti ogni giorno.
Anche se la maggioranza non ci fa caso, le nostre strade, le nostre città sono ancora piene di tracce della dominazione. Perciò potrebbe essere opportuno ragionare a questo proposito con tutte le componenti della comunità, interpellandole come dirette interessate. Non è detto che queste vestigia vadano eliminate. Potrebbero essere conservate o finire in un museo, dove contestualizzarle e spiegarle, come è stato proposto. Quello che è irrinunciabile è che si apra un dibattito plurale sulla questione.
Le istanze di oggi, a mio parere, non devono eliminare la Storia. Nondimeno, non si può fare a meno di considerare che esiste una pluralità di paradigmi, sensibilità e punti di vista. Per trovare la via per una coesistenza possibile, occorre sforzarsi di ascoltarli e comprenderne la prospettiva.»
Qual è il traguardo?
Federico Faloppa:
«Credo che oggi sia necessario riuscire a pensare e vivere una dimensione complessa della cittadinanza. Nel mio piccolo, spero che le mie ricerche contribuiscano, sia pure in modesta misura, a decostruire l’immaginario razzista che si para davanti a questo traguardo.
Per quanto la libertà di espressione resti un’acquisizione non negoziabile sul piano dei diritti, penso che occorrano una profonda consapevolezza e una profonda responsabilità. Esse, infatti, sono necessarie a capire che le immagini e le espressioni che usiamo non sono neutre, ma veicolano rapporti di potere e di soggiogamento. Una volta capito questo, occorre lavorare insieme per decostruire e superare le componenti violente e discriminatorie che resistono nel nostro immaginario. Per provare poi a costruire qualcosa di diverso, di nuovo.»
Questo ci porta a un’ultima domanda. Qual è secondo Federico Faloppa oggi il ruolo etico e politico di chi studia il linguaggio e si occupa di immaginario?
Federico Faloppa:
«Come studioso della lingua, penso che il primo dovere sul piano etico sia trattare i testi per quello che sono. Restituirli, filologicamente, senza modificarli soltanto perché il loro linguaggio oggi non sarebbe più accettabile. Un’operazione del genere non sarebbe rispettosa né dei testi né dei contesti culturali in cui essi sono stati prodotti, che ci piacciano o no. Quindi anzitutto, secondo me, la risposta etica passa per l’approccio filologico, per un certo rigore nell’uso delle fonti che esclude di piegarle alle istanze dell’oggi.
Proprio grazie a questo approccio, del resto, si può trovare e produrre del materiale affidabile da utilizzare nell’educazione o nell’informazione. Tale materiale potrebbe permettere di capire meglio determinati fenomeni e problemi, rendendo possibile una discussione informata e plurale.
Da essa sarebbe auspicabile emergessero pratiche discorsive differenti. E che, a lungo andare, certe rappresentazioni trovassero spazio solo come reperto museale: fenomeni da conoscere e studiare, ma non più riscontrabili nel presente.»