Federico Aldrovandi è ovunque

Federico Aldrovandi ragazzo

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La tragica vicenda di Federico Aldrovandi, morto a Ferrara il 25 settembre 2005, è stata uno degli eventi di cronaca più discussi e seguiti degli ultimi anni. A soli 18 anni, la sua morte ha aperto ferite profonde nella società italiana e ha portato alla luce questioni importanti riguardanti l’operato delle forze dell’ordine, i diritti umani, la falsa giustizia italiana e il grande problema dell’abuso sistemico della divisa. La storia di Federico non è solo il racconto di una perdita incommensurabile per la sua famiglia, ma anche il simbolo di una battaglia contro l’abuso di potere e la mancanza di responsabilità istituzionale.

Nonostante la condanna della Corte di Cassazione nel 2012 che ha portato alla condanna di 3 anni e 6 mesi i responsabili per “eccesso colposo nell’uso legittimo di armi” nei confronti dei quattro responsabili, i genitori di Federico Aldrovandi hanno sempre portato avanti la lotta per la verità per l’omicidio del figlio e aumentare le consapevolezza per quanto riguarda la violenza delle forze dell’ordine nello Stato italiano. Federico non è stato né il primo né l’ultimo ragazzo vittima dello Stato: una lunga scia di dolore e sangue, nonostante le lotte per la verità e la giustizia, ha sempre attraversato la storia dell’Italia. Come Federico Aldrovandi, ogni anno si ricordano tutti quei nomi vittime dell’operato delle forze dell’ordine: da Stefano Cucchi a Gabriele Sandri, passando per Carlo Giuliani fino a Ugo Russo.

L’incontro fatale con la polizia: il caso Aldrovandi

Tutto iniziò la notte del 25 settembre 2005. Federico Aldrovandi, dopo aver trascorso la serata con alcuni amici a Bologna, decise di fare una passeggiata verso casa a Ferrara, lasciandosi nei pressi di viale Ippodromo. In quel momento, due poliziotti, Enzo Pontani e Luca Pollastri, si imbatterono in lui durante un normale giro di pattuglia. I due agenti descrissero Aldrovandi come “un invasato violento”, sostenendo che il ragazzo era in uno stato di agitazione e che li aveva aggrediti. A quel punto, chiamarono rinforzi, e sul posto arrivarono altri due agenti, Paolo Forlani e Monica Segatto. Ci fu uno scontro molto violento che coinvolse manganelli e forza fisica.

I manganelli si ruppero durante la colluttazione, segno della brutalità e della forza spietata, oltre che sproporzionata, dell’intervento. Alle 6.04 del mattino, gli agenti contattarono la centrale operativa, chiedendo l’intervento di un’ambulanza. Quando i sanitari arrivarono, trovarono Federico a terra, ammanettato e incosciente. Nonostante i tentativi di rianimarlo, Federico Aldrovandi fu dichiarato morto sul posto alle 6.16 del mattino, a soli 18 anni.

L’omicidio Aldrovandi è stato uno dei casi di cronaca più discussi non solo per la sua matrice, identificata come una vera e propria morte per responsabilità statale, ma sopratutto per i depistaggi e le omissioni che ci sono state prima, durante e a seguito del processo. Fu questo uno dei motivi che causò alle indagini un’infinita attesa e, di conseguenza, a delle condanne fortemente contestate a causa, da un lato, della corta durata della pena, dall’altro invece dalla volontà di assolvere i responsabili.

Il primo depistaggio e il dolore della famiglia

Nonostante la gravità della situazione, la famiglia di Federico Aldrovandi fu avvisata della sua morte solo dopo diverse ore. La madre, Patrizia Moretti, aveva già iniziato a preoccuparsi alle prime luci dell’alba, chiamando ospedali e questure per avere notizie del figlio che non era rientrato. Tuttavia, la notizia che ricevette non corrispondeva alla realtà. Inizialmente, infatti, la stampa locale riportò che Federico era morto per un malore. Ben presto, questa versione fu integrata da indiscrezioni che parlavano di consumo di sostanze stupefacenti da parte del ragazzo, insinuando che fosse deceduto per overdose.

La famiglia, però, non credette a questa ricostruzione. Lo zio di Federico, infermiere all’ospedale di Ferrara, si recò in obitorio e trovò il corpo del nipote coperto di ferite e lividi, in uno stato che non poteva essere spiegato da un semplice malore. Questa visione diede forza ai genitori, convinti che qualcosa di molto più grave fosse accaduto quella notte. Le prime indagini partirono tra sospetti e depistaggi, mentre i media iniziarono a occuparsi della vicenda solo grazie alla crescente attenzione sollevata dalla famiglia Aldrovandi.

Le perizie e le prime rivelazioni

Il 20 febbraio 2006 venne resa pubblica una perizia medico-legale. L’esame confermava che, pur avendo consumato modeste quantità di sostanze come alcool e droghe leggere, Federico Aldrovandi non era morto a causa di un’overdose. Piuttosto, la causa del decesso venne attribuita a una restrizione fisica che aveva portato a una insufficienza respiratoria, ovvero all’impossibilità di respirare liberamente a causa della pressione esercitata sul suo corpo dagli agenti.

Questa nuova versione, confermata da una successiva perizia commissionata dalla famiglia, rafforzò l’idea che Federico fosse morto a seguito di un abuso di forza da parte degli agenti. La narrazione ufficiale iniziava a sgretolarsi, sollevando sempre di più dubbi sul modello della militarizzazione che, nonostante le varie riforme, sembrava sempre più modellare un sistema di forza, conservatorismo e individuazione del nemico permanente.

L’inchiesta e il processo: tra depistaggi e verità

Nel marzo 2006, i quattro agenti coinvolti vennero formalmente accusati di omicidio colposo. L’indagine fu lunga e complicata, con sospetti di depistaggio e mancanza di trasparenza. In sede di processo, una testimone oculare, una residente della zona, confermò di aver assistito ad alcune fasi della colluttazione, dando ulteriore credito all’ipotesi di un abuso da parte della polizia. Inoltre, una nuova perizia, svolta presso l’Istituto di medicina legale di Torino, escluse definitivamente la droga come causa della morte.

Il processo, che iniziò nel 2007 e durò diversi anni, fu caratterizzato da molte testimonianze contraddittorie, riprese video della polizia scientifica e nuove perizie mediche. Alla fine, il giudice stabilì che Federico Aldrovandi era morto a causa della pressione esercitata dagli agenti sul suo corpo, in particolare per asfissia da compressione toracica. Come decide il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, i quattro agenti furono condannati a tre anni e sei mesi di reclusione per omicidio colposo: Paolo Forlani, Monica Segatto e Luca Pollastri.

La difesa chiese per l’affidamento in prova ai servizi sociali oppure agli arresti domiciliari, ma alla fine i tre condannati scontarono le loro pene in prigione. Dopo qualche mese arrivò la decisione finale anche per l’ultimo poliziotto, Enzo Pontani, all’inizio rinviato per vizio di notifica.

L’indulto e la controversa reintegrazione

Sebbene la sentenza fosse definitiva, la vicenda non si concluse con la condanna. Gli agenti condannati beneficiarono dell’indulto, che coprì 36 dei 42 mesi di pena. Di conseguenza, scontarono solo sei mesi di carcere. Successivamente, nel gennaio 2014, tre dei quattro agenti furono reintegrati in servizio, anche se con mansioni amministrative e in sedi lontane da Ferrara.



Questo fatto sollevò un’enorme polemica, soprattutto perché, durante il congresso del Sindacato autonomo di polizia (SAP), i tre agenti furono accolti da un lungo applauso, un gesto di solidarietà che lasciò molti increduli e amareggiati, inclusa la famiglia Aldrovandi. La madre, Patrizia Moretti, commentò l’episodio con dolore, vedendo in quegli applausi “il simbolo dell’impunità”.

Il risarcimento e la seconda inchiesta

Oltre alla battaglia legale per la verità sulla morte di Federico, la famiglia Aldrovandi ricevette anche un risarcimento di circa due milioni di euro, a patto di non costituirsi parte civile nei procedimenti successivi. Ma nonostante il risarcimento, la battaglia giudiziaria non si fermò. Nel frattempo, si aprì un secondo filone d’indagine sui depistaggi e le omissioni avvenute durante le prime fasi delle indagini. Nel giugno 2014, la Cassazione confermò le condanne a carico di due agenti coinvolti in questi atti, chiudendo definitivamente anche questo capitolo.

L’eredità di Federico Aldrovandi: una memoria che non si spegne

Federico Aldrovandi è diventato un simbolo della lotta contro gli abusi di potere. Ogni anno, il 25 settembre, la sua memoria viene celebrata con iniziative organizzate dall’associazione “Verità per Aldro”, fondata dalla famiglia e dai sostenitori. Questa associazione, nata nel 2006, ha come obiettivo la sensibilizzazione sugli abusi delle forze dell’ordine e la promozione di una cultura della giustizia e dei diritti umani.

Federico Aldrovandi è nel cuore di tutti e tutte, come ha testimoniato anche l’ACAD, l’Associazione Contro gli abusi in divisa, che da anni unisce molte collettività, tra cui le tifoserie delle curve delle squadre calcistiche che, oltre i loro colori, hanno sempre esposto il giovane volto di Federico per ricordare che nessuno dimentica.

Le parole dei genitori di Federico, Patrizia e Lino, riecheggiano ogni anno, ricordando non solo la perdita del loro figlio, ma anche la loro determinazione nel cercare giustizia. Ricordare che Federico è ovunque, come recita anche lo striscione della sua squadra del cuore – la Spal -, serve a far capire chi sono i veri carnefici. Come Federico, ci sono stati altri mille Carlo, Stefano, Gabriele, uccisi da una divisa chiamata a proteggere la comunità. Proprio per questo, ogni 25 settembre e ogni giorno dovremmo ricordarci che la retorica delle mele marce non è più comprensibile, ma solo una retorica definizione per giustificare la violenza sistemica di uno Stato che, puntualmente, riesce a sfuggire a qualsiasi condanna e verità.

E come è capitato a Federico Aldrovandi, trovato morto con 60 lesioni sul suo corpo e due manganelli che si sono rotti per quanta forza è stata usata su un ragazzo indifeso, lo Stato italiano preferisce liberare i colpevoli di un omicidio o difendere una vetrina rotta piuttosto che fare giustizia su una vita spezzata. 

 

“E dimmi tu, che fine ha fatto Federico,

Da solo quella notte, senza nessun amico

Ha incontrato quattro stronzi con la legge sul vestito

Hanno spezzato i manganelli per mostrargli che cosa è proibito”

– Lucci, “La Collina”

Lucrezia Agliani

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