Il fast fashion è anche una questione di giustizia ambientale

impronta ambientale del fast fashion Fast fashion è giustizia ambientale

Cosa si intende per fast fashion? Abbigliamento economico e di bassa qualità, con un tasso di produzione rapida, come rapidi sono la decisione di acquistare capi, la loro consegna e, allo stesso modo, i tempi di scarto. Ma il problema non riguarda solo produzione o comportamenti di acquisto, è anche una questione di diritti umani e di giustizia ambientale.

Negli ultimi decenni siamo testimoni di tendenze che ormai non riguardano più la stagionalità. Nel giro di qualche settimana i capi di abbigliamento vengono esposti nelle vetrine per poi andare in esaurimento velocemente. Attraverso questo fenomeno, chiamato microtendenza, le marche ci spingono a comprare all’istante ciò che vediamo.

Da questo, come si arriva a parlare di giustizia ambientale?

Dietro al consumo sfrenato c’è una produzione senza sosta dei lavoratori di paesi asiatici come Vietnam, Bangladesh e Cina. Spesso i media denunciano condizioni lavorative inumane con orari eccessivi e sottopagati. Questi lavoratori subiscono una cultura lavorativa fatta di bullismo e molestie.

Dove finiscono i rifiuti dell’industria della moda?

L’industria della moda produce annualmente circa 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili. Il 73 per cento finisce nelle discariche in giro per il mondo. Una parte viene bruciata mentre solo una piccola frazione, meno dell’1%, viene riciclata. Alcuni di questi prodotti non arrivano nemmeno ai consumatori, altri sono rimanenze e una parte sono difettosi. Tutti questi hanno però un innegabile impatto negativo sull’ambiente e sulle intere comunità dei paesi a basso o medio reddito.

Disastro ambientale al Deserto di Atacama in Cile

Circa 60 mila tonnellate di vestiti non voluti da Europa, Stati Uniti ed Asia vengono portati in Cile. Qui vengono classificati e divisi in categorie: nuovo, in buono stato, discreto o spazzatura. Quelli classificati come spazzatura vengono scaricati nel Deserto, vicino ai quartieri più poveri delle città situate nel nord del Paese. Gli abitanti di quelle zone sono le prime vittime dei fumi tossici causati dagli incendi che divampano nelle discariche.

Discariche tossiche in Ghana

Lo stesso problema si presenta anche in questo paese dell’Africa occidentale. Gli abiti spediti in Ghana per la rivendita e il riutilizzo arrivano da Regno Unito, Europa, Nord America e Australia. La gran parte di questi capi non può essere venduta nel Paese e finisce nelle discariche, in quanto dare una seconda vita a questi capi è impossibile a causa della loro qualità scadente. L’ovest della città di Accra, capitale del Ghana, era già nota negli anni ‘90 per l’inquinamento ed è di nuovo al centro dell’attenzione per le discariche composte per oltre il 60 per cento di vestiti.

Perché si parla di giustizia ambientale?

Le 52 micro stagioni inventate dai brand di fast fashion non hanno cambiato solo il nostro rapporto con la moda ma hanno aggiunto un altro tassello alla distanze tra le comunità con alto reddito e quelle con basso medio reddito.


L’ingiustizia ambientale contribuisce alle disparità nello stato di salute tra popolazioni di diversa etnia, razza e stato socioeconomico.

Alle ingiustizie razziali nei riguardi dei lavoratori relative alla produzione dei capi d’abbigliamento, si aggiunge l’impatto ambientale dello smaltimento che colpisce soprattutto le comunità più fragili come per esempio quelle cilene ghanesi di cui abbiamo parlato. Queste sono vittime di pratiche commerciali ormai insostenibili per la loro salute e vita quotidiana. Noi come consumatori dobbiamo prenderci la responsabilità delle nostre azioni rivalutando le nostre scelte.

 

Nazlican Cebeci

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