Fallen stars: i martiri delle proteste contro il golpe in Myanmar

golpe in Myanmar

“Fallen stars”, è così che in Myanmar gli oppositori dei militari chiamano le vittime del regime: sono oltre 700 le stelle cadute sotto i colpi della dittatura violenta e sanguinaria che ha seminato il terrore dal giorno golpe.



I numeri della strage in Myanmar dal golpe militare

Sono passati più di due mesi da quando il golpe ha fatto precipitare il Myanmar in una spirale di terrore. La repressione continua a uccidere e i militari soffocano nel sangue le proteste dei manifestanti. Secondo l’ultimo aggiornamento dell’ONG Assistence Assosiaction for Political Prisoners (AAPP) 726 persone sono state uccise dalle forze dell’ordine. I dati però non sono precisi, e i morti potrebbero essere molti di più. Allo stesso modo, non è possibile stabilire il numero dei feriti, ma si calcola che siano migliaia. A queste vittime si aggiungono i 3151 arrestati, tra i quali 75 sono stati condannati in seguito a processi sommari e arbitrari.

Non è facile reperire informazioni: la dittatura militare sta mettendo a tacere i media locali, e ha sospeso l’accesso a internet e i dati mobili. In alcune regioni del paese vige la legge marziale e numerose restrizioni sono state imposte alle libertà personali: è stato introdotto il coprifuoco e le riunioni e gli assembramenti non sono tollerati.

Oggi il Myanmar è un Paese profondamente ferito, che con orgoglio e disperazione piange i suoi morti. Ma, nonostante tutto, non si piega alle minacce.

Colpo di stato e repressione

Dal golpe che, in Myanmar, ha deposto e arrestato il presidente e Aung San Suu Kyi, la leader della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), insieme ad altri membri del partito, il potere è tornato nelle mani dell’esercito, che lo aveva detenuto fino al 2011, quando il Paese aveva iniziato a muovere i primi passi verso la democrazia.

Il generale Min Aung Hlain ha assunto il ruolo di capo del governo, annunciando la sua intenzione di voler formare “una vera democrazia basata sulla disciplina”. E mentre lui, dai palazzi presidenziali, dichiara che l’esercito è dalla parte del popolo, sulle strade il Tatmadaw, la polizia e le truppe d’élite reprimono proteste pacifiche e scioperi, in un climax crescente di violenze, abusi e torture. All’inizio erano cannoni ad acqua, fumogeni e pallottole di gomma. Poi le forze dell’ordine hanno iniziato ad abbattersi sui manifestanti con veri proiettili, armi automatiche e addirittura attacchi aerei lungo i confini: l’obiettivo è diventato quello di uccidere.

I martiri della “rivoluzione” sono soprattutto giovani, studenti, professori, avvocati, medici, le persone che compongono il colorito e poliedrico volto delle strade della Birmania. Spinti da audacia e disperazione gli oppositori del regime, armati di arco e frecce, si proteggono dietro barricate improvvisate, fatte di sacchi di sabbia, auto rovesciate e date alle fiamme. Imparano su internet come fabbricare armi artigianali. Nella foresta, dove molti cercano di fuggire alla violenza delle città, si esercitano a sparare con fucili rudimentali. La protesta pacifica sta lasciando spazio a qualcosa di diverso, che rassomiglia di più a una guerriglia. Intanto gruppi ribelli armati e le forze delle minoranze etniche (Ta’ang National Liberation Army, Myanmar Nationalities Democratic Alliance Army , Arakan Army) si sono sommati alle proteste, e il rischio è che una guerra civile infiammi il paese.

27 marzo, un bagno di sangue

Il 27 marzo è stata la giornata più sanguinosa dall’inizio delle proteste. Mentre nella capitale il generale Min Aung Hlain elogiava i suoi soldati, quegli stessi soldati uccidevano 114 persone, in oltre 40 città, da Yangon a Mandalay, a Mawlamyine. Sfidando gli avvisi del portavoce del regime, a migliaia sono scesi in strada nella Giornata delle Forze Armate.  E queste hanno risposto con una repressione letale, che ha lasciato una lunga scia di sangue sulle strade del Paese.

Le vittime sono state finite a colpi di arma da fuoco alla testa, al petto, sulla schiena, in molti casi torturate, alcune lasciate bruciare senza pietà su pire di copertoni. Molti sono stati uccisi mentre protestavano, altri nelle proprie case. A centinaia sono stati feriti. Quando il gas dei fumogeni si è diradato, gli occhi in lacrime di chi piangeva i propri morti sono diventati un’immagine fin troppo comune.  Un massacro che “non ha limiti e non ha principi”, una carneficina che ha scosso tutto il Myanmar e provocato orrore. I portavoce internazionali hanno condannato la strage dei dimostranti e imposto sanzioni. Ma il generale non ha intenzione di allentare la morsa di terrore che stringe il Paese.

A Bago, venerdì 9 aprile, l’intervento delle forze dell’ordine ha ucciso 82 persone. “È come un genocidio. Stanno sparando a ogni ombra”, ha raccontato un organizzatore della protesta a Myanmar Now. I soldati hanno impedito a medici e volontari di intervenire per soccorrere i feriti. È anche stato registrato l’uso di artiglieria pesante.

Bambini vittime del golpe in Myanmar

La violenza brutale dei soldati di Min Aung Hlain non risparmia nemmeno i più piccoli. Sono almeno 43, secondo Save the Children, i bambini strappati alla vita dalla ferocia sanguinaria della repressione dell’esercito. A Mandalay, una bambina di 6 anni è morta tra le braccia di suo padre, uccisa dalla polizia mentre, spaventata dall’incursione degli ufficiali in casa sua, cercava protezione. Urlava “Non ce la faccio papà, ho troppa paura”. Sempre a Mandalay un bambino di 5 anni è stato colpito alla testa. Una bimba di un anno, la più giovane vittima del regime, ha perso un occhio dopo essere stata raggiunta da un proiettile di gomma mentre giocava sul marciapiede fuori casa sua. A Yangon i militari hanno fatto fuoco su un ragazzino di 13 anni che giocava per strada. Una ragazzina di 14 anni è stata colpita dai soldati mentre chiudeva le finestre di casa.

È terribile, doloroso ascoltare le testimonianze di questi genitori cui è stata tolta ogni ragione di vita. Il loro sguardo è vuoto, non hanno più lacrime da piangere.

Sempre Save the Children esprime preoccupazione per quanto riguarda le condizioni di alcuni minori, almeno 17, detenuti arbitrariamente dalla polizia. Il timore è aggravato da informazioni ricevute dall’ONU, secondo cui sarebbero comuni le violenze sessuali sui detenuti: “È orribile che i bambini continuino a essere bersaglio di questi attacchi letali contro i manifestanti pacifici. […] Il fatto che così tanti bambini siano uccisi quasi quotidianamente dimostra la totale mancanza di rispetto per la vita umana da parte delle forze di sicurezza”.

Tre dita al cielo per difendere la libertà

Ma la protesta non si ferma. I giovani, principali fautori della resistenza, non sono disposti a lasciare il loro Paese nelle mani della giunta. Con le tre dita al cielo per difendere il loro diritto alla libertà, continuano a marciare senza paura. Se uno cade, un compagno lo sostituirà, finché la dittatura militare non sarà caduta.

Camilla Aldini

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