Quando si pensa alla letteratura che soffoca e sostituisce la realtà, si rimembrano i personaggi di don Chisciotte e Madame Bovary. Quest’ultima è talora vista in parallelo con Anna Karénina. Ma si può restare in Russia per conoscere un’altra figura, stavolta maschile e meno popolare: Evgenij Onegin.
È il protagonista del romanzo eponimo (1823-1833) a firma di Aleksandr Puškin (Mosca, 1799 – San Pietroburgo, 1837). Da esso, è stata tratta un’opera lirica (1879), composta da Pëtr Il’ič Čajkovskij: noto per Il lago dei cigni.
Un giovane alla moda e annoiato eredita improvvisamente una proprietà in campagna. Là, la sua eccentricità si nota ancor più. Fa però breccia nel cuore dell’introversa Tat’jana: Evgenij sembra incarnare i personaggi dei suoi romanzi favoriti, gli unici amici che abbia.
Anche il giovane prova qualcosa per lei. Ma la respinge, con una motivazione che può suonare assurda:
“Qualora volessi confinare la mia vita
dentro la cerchia domestica;
se una gradevole sorte mi avesse
ingiunto di essere marito e padre;
se anche un solo istante l’immagine
della famiglia mi avesse allettato, –
allora, probabilmente, a parte voi
io non cercherei nessun’altra.
Dirò senza luccichii di madrigali:
ritrovando in voi il mio primo ideale,
probabilmente voi sola io eleggerei
a compagna dei miei tristi giorni,
in pegno di tutto ciò che è bello,
e sarei felice… per quanto posso!
Ma io non sono nato per la felicità;
la mia anima le è estranea;
sono vane le vostre perfezioni:
io ne sono del tutto indegno.
Credetemi (lo garantisco in coscienza),
per noi il matrimonio sarebbe un tormento.
Io, non importa quanto vi amassi,
con l’abitudine mi disamorerei subito;
comincereste a piangere: le vostre lacrime
non toccherebbero il mio cuore,
lo farebbero soltanto infuriare.
Giudicate voi quali rose
ci preparerebbe Imene,
e chissà per quanti giorni.”
(A. Puškin, Evgenij Onegin, Capitolo Quarto, strofe XIII-XIV. Edizione consultata: Venezia 2015, Marsilio, a cura di Pia Pera, p. 211)
Perché un rifiuto così strano? Lo scoprirà Tat’jana stessa, durante una visita alla casa dell’affascinante vicino. Là, scoprirà la sua devozione per le opere di Lord Byron e altre permeate da un consimile Romanticismo. Insomma, Onegin ha cucito su se stesso l’immagine dell’homme fatale, affascinante e dannato, un egoista inquieto e infelice, come lo proponevano mode letterarie straniere. Un’identificazione tale da soffocare l’espressione dei suoi veri sentimenti.
Ciò si accompagna, nel romanzo in versi, alla questione della lingua. Puškin scrive in russo; ma l’idioma letterario, per i suoi connazionali, era il francese. Egli stesso non può esimersi da qualche francesismo, nell’opera; e il personaggio di Tat’jana, dovendo scrivere una lettera molto sentimentale, non può però evitar d’impiegare quella lingua straniera.
Come finirà il conflitto tra finzione culturale e verità del sentire? Puškin non è né Flaubert, né Tolstòj. Non può accettare lo squallore di avventure illusorie, o spingere l’eroina alla trasgressione sociale che la renderà una reietta. La storia di Evgenij e Tat’jana seguirà un percorso di coerenza morale, che porterà entrambi alla sofferenza fatale, ma anche a un paradossale trionfo: quello di chi trova la realtà, oltre la nebbia dei sogni.
Per quanto riguarda la questione della lingua, il risultato è nelle mani del lettore. Sia pure con le dovute difficoltà, Puškin modella il russo e lo fa cantare. Anche per la rottura dell’idillio francofilo, dopo l’invasione napoleonica, fioriranno giganti in lingua russa: come il sunnominato Lev Tolstòj, o Fëdor Dostoevskij. Che si tratti di idiomi o di confessione dei sentimenti, una lingua diventa grande solo se rinuncia alle imitazioni pedisseque, per far parlare il cuore.
Erica Gazzoldi