Fra le tante storie della Shoah, arrivate a noi, alcune hanno la caratteristica di avere una doppia valenza di testimonianza storica e filosofica. Una di queste è quella di Etty Hillesum, giovane donna olandese, ebrea, vittima dell’Olocausto morta ad Aushwitz il 30 novembre del 1943, che ha raccontato, in alcuni diari, gli ultimi tragici ma straordinari anni della sua vita.
Etty Hillesum è morta ad Aushwitz il 30 novembre del 1943 e ciò che oggi sappiamo di lei è tutto scritto in undici quaderni completamente ricoperti da una scrittura minuta, quasi indecifrabile, che abbracciano tutto il 1941 e il 1942. Essi tracciano un disegno dell’esistenza di una giovane donna borghese ed ebrea, negli anni delle deportazioni e dello sterminio, ma anche una profonda riflessione sulla vita, sull’umanità, sul potere dell’interiorità e dell’animo umano. È la lezione di vita, speranza e resilienza di una ragazza che ha saputo trasformare il suo dolore e quello del suo popolo in saggezza e, paradossalmente, in gioia di vivere.
Esther Hillesum detta Etty
Esther Hillesum, detta Etty, nasce a Middelburg, in Olanda, nel 1914, da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica. L’infanzia e l’adolescenza sono segnate da continui spostamenti con la famiglia. Vive in molti posti e diventa una ragazza brillante e intensa, con la passione per la letteratura e la filosofia. Si laurea in giurisprudenza e si iscrive, poi, alla facoltà di lingue slave. Intraprenderà anche lo studio della psicologia, avvicinandosi a quella analitica junghiana, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale e della persecuzione del popolo ebraico, causa, allo stesso tempo, della sua morte fisica e della sua rinascita spirituale. Etty nasconde, infatti, sotto un aspetto vivace, una profonda infelicità e, in seguito, una serie di estenuanti malesseri fisici. Anche, probabilmente, a causa di carenze affettive ed educative dovute al burrascoso matrimonio dei suoi genitori, vive in quel periodo relazioni sentimentali complicate che la lasciano, a suo dire, “lacerata interiormente e mortalmente infelice”.
L’incontro con Spier e con Dio
Qualcosa d’importante e decisivo accade ad un certo punto: è l’incontro con lo psico-chirologo tedesco, Julius Spier, ebreo come lei ma molto più grande, che la cambia profondamente. Ne è paziente in un primo momento e ne diventa, poi, segretaria, amica devota e amante.
Attraverso le contraddizioni di una relazione piuttosto complessa, Spier la guida in un percorso di realizzazione umana e spirituale che sarà ciò che la aiuterà negli anni più duri e forgerà la sua forza interiore. Fulcro di questa forza è il rapporto con Dio, visto non come un’entità esterna a noi ma come qualcosa che ci portiamo dentro. E’ lei stessa a ribadirlo:
Quella parte di me, la più profonda e la più ricca in cui riposo, è ciò che io chiamo Dio.
Etty Hillesum e il destino del suo popolo
Ed è anche ciò che la spinge a condividere pienamente la triste sorte del suo popolo non sottraendosi alla deportazione. Nel 1942, infatti, lavorando come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, potrebbe avere salva la vita. Decide, invece, di trasferirsi, insieme agli altri ebrei prigionieri, al campo di transito di Westerbork, una sorta di anticamera di Auschwitz, dove lavorerà come assistente sociale. Tornando a casa di tanto in tanto. Lo fa sperando di poter portare luce nella vita di coloro che chiama “fratelli” con la sua forza interiore e rendere così giustizia alla vita.
Dal suo stesso racconto
Sono arrivata a Westerbork dopo aver lasciato, dopo soli 15 giorni, l’impiego nell’ Ufficio del Consiglio Ebraico ad Amsterdam, un ambiente a metà tra l’inferno e il manicomio. Naturalmente non si potrà mai più riparare al fatto che alcuni ebrei collaborino a far deportare tutti gli altri. Ho chiesto allora di essere inviata qui al campo, ho rinunciato al sicuro. Voglio esserci, voglio capire.
Era il 30 luglio 1942, all’inizio registravo i nuovi arrivi, smistavo la posta, poi sono stata assegnata come assistente alle baracche dell’ospedale. Posso usufruire di permessi limitati che mi consentono di rientrare a casa. Westerbork era stato costruito nel 1939 per raggruppare rifugiati ebrei, tedeschi o apolidi, che fossero entrati nei Paesi Bassi; il 1 luglio del 1942 passò sotto il comando tedesco diventando ufficialmente campo di transito.
Nel campo gli ebrei sono divisi per liste: i residenti a lungo termine, gli ebrei battezzati, di origine portoghese, quelli con matrimonio misto, quelli pronti per partire per la Palestina, la lista Puttkamer, la lista Calmayer, quelli che sperano di provare le loro origini ariane.
E ancora…
Che cosa aggiungere? C’è un comandante olandese e uno tedesco, un orfanotrofio, una sinagoga, una piccola cappella mortuaria. Costruiranno un manicomio e una prigione più grande, una prigione dentro una prigione. Si possono ricevere lettere, meglio se cartoline postali, pacchi di viveri e di indumenti, sempre attraverso il Consiglio Ebraico. Nelle baracche si muore di freddo. I letti di metallo senza materassi né coperte. Nelle cuccette si vive e si muore, si mangia e si è malati. Ma il centro della vita di Westerbork ruota tutto attorno ad unico, terrificante avvenimento: la partenza ogni martedì del treno. Il numero dei deportati deve essere quello stabilito, da 1600 a 2500. La destinazione? Sconosciuta.
La deportazione ad Auschwitz
Prima della sua partenza definitiva per Auschwitz, dove sarà deportata nel Settembre 1943 e morirà a Novembre dello stesso anno, Etty sente che la sua fine è vicina. Chiede, dunque, a un’amica olandese di nascondere i quaderni e di farli avere ad uno scrittore di sua conoscenza, alla fine della guerra. I manoscritti, molto difficili da decifrare, a causa della grafia incomprensibile, passano per anni da un editore all’altro e solo nel 1981 sono finalmente pubblicati, permettendo ai lettori di tutto il mondo di conoscere la straordinaria esperienza di una persona “luminosa”, come l’hanno definita i sopravvissuti del campo che vissero con lei.
Eredità culturale e messaggio di Etty Hillesum
Si tratta, veramente, di una figura rivoluzionaria, se si pensa al messaggio che attraverso quel suo scrivere, quasi compulsivo, per non soccombere, ha fatto arrivare a noi, nonostante sia morta allora. È un messaggio di forza e resistenza interiore, di rivoluzione umana e rifiuto dell’odio. Etty lotta contro l’abbrutimento a cui tanto dolore potrebbe portare. Vuole restare umana e si rifiuta di rispondere con l’odio all’odio ricevuto, alla crudeltà che gli sta intorno. Lei vuole resistere per salvare la parte più bella di un’umanità che sta venendo annientata, quella che non si può distruggere perché immateriale, intangibile e incorruttibile. Vuole salvare l’animo umano perché in quello riconosce e incontra il divino, una forza più grande e potente che lei chiama Dio.
Siamo di fronte a una lezione teologica e filosofica insieme che può essere letta in maniera differente da chi ha fede in Dio e da chi non ne ha, ma che porta con sé una verità unica è indiscutibile: la parte spirituale degli esseri umani è una fonte indistruttibile di forza e ha un potere immenso.
L’atto politico e la resistenza all’odio
C’è un atto politico a tutti gli effetti dentro questa storia, perché Etty Hillesum reagisce e si ribella all’ingiustizia resistendo e non piegando la propria anima all’odio.
Le ultime notizie dicono che gli ebrei saranno tutti deportati e che dall’Aprile scorso sono morte 700.000 persone. Se rimarremo vivi queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci tutti dentro, per sempre. Eppure non riesco a trovare assurda la vita. Sono già morta mille volte, in mille campi di concentramento. Le rose si sono schiuse e molti mi dicono: ‘Ma come fai a pensare ancora ai fiori in questi tempi?’
Nel campo di concentramento è terminato il mio esilio. Questi due mesi tra il filo spinato e il cielo sono stati i mesi più intensi e più ricchi della mia vita. Com’è possibile che quel pezzetto di brughiera, recintato da filo spinato, dove ho visto così tanto dolore umano, sia diventato per me un ricordo così dolce?
Il cielo, metafora di Dio e simbolo di libertà
Dappertutto c’erano cartelli che ci vietavano la strada per la campagna: ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto.
Cosa c’è di più bello e rassicurante che guardare il cielo? Forse nulla. Perché è ciò che ci fa sentire vivi, ci ricorda la nostra appartenenza al mondo e alla vita. E accomuna buoni, cattivi, ricchi, poveri, liberi e prigionieri. Tutti viviamo sotto lo stesso cielo e nessuno ci può vietare di guardarlo perché il cielo è sempre sopra la nostra testa ed è sempre sopra la nostra vita, quasi per osservarla e proteggerla. Etty esprime in questa frase tutta la sua voglia di restare al mondo e di continuare la sua esistenza, anche in un momento difficile come quello che sta vivendo insieme al suo popolo. La sua libertà fisica è limitata, ma le basta guardare lassù per sentirsi libera nell’anima. Nessuno può impedirle di sognare, di sperare, di amare o, semplicemente, di alzare lo sguardo al cielo. È una libertà più importante di quella fisica, perché è una libertà che nessuno le può togliere.
La speranza di Etty
Infine, il messaggio che Etty Hillesum vorrebbe tramandare a chi verrà dopo di lei è riferito anche alla speranza di un futuro di pace e non violenza, realizzabile attraverso ciò che oggi chiamiamo memoria. Si evince, dalle sue parole, la convinzione che attingendo al passato per trasformare gli errori in lezioni e l’odio in amore, una pace possa essere auspicabile e reale, e non rimanere utopia.
Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso, se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso. Forse, alla lunga, in amore, se non è chiedere troppo.
Assunta Nero