5 mesi. Questa la durata della fragile tregua stipulata tra le truppe governative di Abiy Ahmed e il fronte popolare di liberazione del Tigray (FPLT) in Etiopia.
Un conflitto iniziato ormai due anni fa nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia, e che ha visto di recente aprirsi una nuova fase nella cittadina di Kobo. Entrambe le parti si attribuiscono a vicenda la responsabilità della riaccensione delle ostilità ma, aldilà delle contingenze, si tratta di una guerra civile dalla matrice etnica: l’etnia tigrina ha dominato la scena politica etiope per 30 anni, prima che Abiy Ahmed, di origine oromo, salisse al potere nel 2018.
Da quel momento in po la situazione è degenerata, coinvolgendo anche le vicine Eritrea e Somalia. Abiy Ahmed infatti ha stipulato un accordo tripartito con i due paesi confinanti al fine di soffocare la rivolta nel Tigray. Durante il corso del conflitto ci sono stati rapidi capovolgimenti di fronte, con le forze governative che sembrava potessero avere facilmente la meglio, fino a che la controffensiva del FPLT si è spinta a pochi chilometri dalla capitale lo scorso novembre. L’esercito però è riuscito a riconquistare terreno ed a marzo sono state gettate le basi per una tregua.
Il conflitto nel Tigray è l’ennesimo dramma di una situazione già tragica
Quando Abiy Ahmed è salito al potere l’opinione pubblica internazionale si aspettava una nuova fase propositiva per l’Etiopia, o almeno un esecutivo più aperto al dialogo. Purtroppo non è stato così. Se a giugno il governo ha formato un comitato per trattare la pace col TPLF, allo stesso tempo si è premurato di lasciare l’intera regione del Tigray senza alcuna connessione bancaria e telecomunicativa, oltre che con forti carenze di carburante. Non il miglior modo per distendere le tensioni di un contesto già segnato da stupri, massacri etnici e carestie alimentari- secondo il World Food Program il 90% della popolazione tigrina attualmente ha bisogno di aiuti.
Per avere un quadro chiaro di quale sia la situazione attuale dell’Etiopia, dobbiamo tenere conto di almeno altri due fattori. Il primo è che le insurrezioni si sono estese dal Tigray alle regioni dell’Oromia, di Bengashul/Gumuz e di Gambela, coinvolgendo soprattutto la popolazione. Per dare un’idea basti dire che nei primi sei messi dell’anno sono stati effettuati 220 attacchi contro i civili, causando 1220 morti.
Il secondo fattore è quello climatico. Il Tigray infatti soffre la più grave crisi di siccità degli ultimi 40 anni, mentre un’altra parte del Paese, paradossalmente, si appresta ad affrontare i danni della prossima stagione delle piogge, con 407 mila persone che rischiano di diventare sfollate.
Quale futuro per l’Etiopia?
Inflazione sui beni alimentari al 33%. Aumento del mercato nero della valuta. Responsabilità condivise sulla riaccensione del conflitto. Ogni tassello che aggiungiamo a questo mosaico etiope non fa che mostrare un disegno sempre più cupo, difficile da dirimere. Ad oggi, il TPLF è disposto a trattare solo a patto di riappropriarsi del Tigray occidentale, regione in cui le forze governative sono state accusate di aver portato avanti una campagna di pulizia etnica per “incentivare” i tigrini ad andarsene.
Ciò che è certo è che l’Etiopia ha un disperato bisogno di trovare la pace. Stretto tra la morsa economica e i conflitti sparsi per tutto il territorio, per Abiy Ahmed è necessario trovare una soluzione. In questo senso la mediazione di Olesegun Obesanjo, delegato inviato dall’Unione Africana ed ex presidente della Nigeria, potrebbe risultare un elemento chiave. Ma Obesanjo dovrà essere bravo a guadagnarsi la fiducia del FPLT, al momento diffidente viste le accuse di essere molto vicino al presidente etiope e il pressing subito dall’occidente per fargli assumere un ruolo centrale.
Non rimane altro che sperare che il futuro porti un po’ di serenità in questa terra martoriata dalle dinamiche malate del potere e dalla crisi climatica. Mentre Addis Abeba riflette sulla strategia da adottare, bambini, donne e civili rischiano di morire ogni giorno. L’analista locale Tsedale Lemma ha chiarito perfettamente il punto parlando al “New York Times”: “che il conflitto si estenda o no, difficilmente potrebbe andare peggio per i civili tigrini”.
Daniele Cristofani