Oggi, nel giorno della ricorrenza del massacro di Addis Abeba, si celebra la Giornata della Memoria in Etiopia, in onore di tutte le persone morte nel corso della dominazione italiana.
E’ possibile, e anzi mi verrebbe da dire probabile, che non abbiate mai sentito parlare di tale ricorrenza. D’altronde, cosa ce ne importa della Giornata della Memoria in Etiopia? Si celebra a migliaia di chilometri dall’Italia e sicuramente non ci spaventerà il suo nome, che ricorda il genocidio commesso dai nostri cuginetti tedeschi. Ma eccovi servito l’elemento sconvolgente della storia: l’evento si celebra in onore delle vittime della dominazione fascista in Etiopia. Quindi, alla luce di queste informazioni: non risulta strano non essere informati su tali circostanze?
La scelta del giorno non è di certo casuale, infatti, il 19 febbraio si ricorda la strage di Addis Abeba, in cui persero la vita, per mano di nostri connazionali, un numero imprecisato di etiopi, che secondo le fonti più attendibili si attesta intorno ai 3000. Ma partiamo dal principio e cerchiamo di capire cosa successe quel lontano 19 febbraio 1937.
La strage di Addis Abeba
Come tutti saprete, l’Italia conquistò l’Etiopia nel corso della guerra del 1935-36. Già a maggio del 1936 Benito Mussolini annunciò che le truppe del generale Badoglio avevano conquistato la nazione abissina, sebbene la realtà dei fatti vedesse ben due terzi del territorio ancora in mano ai rivoltosi.
A seguito delle dichiarazioni, Badoglio lasciò la nazione, mentre il 20 maggio Rodolfo Graziani divenne viceré d’Etiopia. Nel tempo, Graziani prenderà il pieno controllo di Addis Abeba, riuscendo anche a liberare le linee di comunicazione della capitale. Successivamente, nel gennaio 1937, le truppe italiane si stabilirono saldamente nella capitale e il generale partì per un tour lungo tutta la nazione, con l’intento di consolidare il suo potere e contestualmente dimostrare al mondo che l’Etiopia era ormai una terra sicura.
19 febbraio 1937
In realtà, il viaggio durò più del previsto e al suo rientro nella capitale, l’11 febbraio, girava ormai la voce che Graziani fosse morto. Il 19 febbraio, a seguito di diversi atti dimostrativi, il viceré decise di regalare delle monete d’argento ai bisognosi della capitale, in onore della nascita del primo figlio di Umberto II di Savoia,
Tuttavia, nel corso dell’evento alcuni rivoltosi, nascostisi tra i bisognosi, lanciarono diverse bombe a mano sulla schiera di generali presenti, misti tra italiani ed etiopi, provocando grande scompiglio. Vi furono alcuni morti e diversi feriti, compreso il generale Graziani, che rischiò persino la morte. Nelle ore successive all’attentano, venne contingentata la zona dell’evento e si scatenò una carneficina senza precedenti, che colpì tutti i presenti di nazionalità etiope, anche i rappresentanti politici.
La reazione del regime fu, naturalmente, violentissima, e vennero schierate le camicie nere, che uccisero migliaia di civili e diedero fuoco a interi quartieri, aiutate anche dai civili italiani fagocitati dal regime. L’esercito improvvisò dei campi di concentramento, dove deportare tutti gli Eritrei in possesso di armi, mentre le strade, per tre giorni, furono un vero e proprio bagno di sangue.
Naturalmente questo evento, oltre a generare il malcontento nella popolazione autoctona, diede una scusa agli Italiani per aumentare il controllo. Purtroppo, negli anni il regime commise atti ai limiti del dicibile.
L’indifferenza
Ciò che più spaventa della strage di Addis Abeba, a distanza di 84 anni, è l’indifferenza e il tentativo di insabbiamento che l’Italia ha cercato di protrarre per decenni. Peraltro, tale pratica è stata messa in atto nei confronti di tutta la campagna in Etiopia e in Africa in generale.
Secondo molti nostri concittadini, i crimini nel Corno D’Africa non sono mai stati commessi e, anzi, sono stati i “poveri Italiani a subire”. Addirittura, nel corso del secondo dopoguerra, nacquero anche diverse associazioni di reduci e veterani africani, pronte a scongiurare ogni tentativo di ricerca della verità.
Se ora sappiamo, almeno in parte, ciò che è successo veramente in quegli anni in Etiopia, è grazie a Angelo Del Boca. Quest’ultimo è lo storico che già dagli anni ’60 tentò di riportare alla luce le nefandezze compiute dall’esercitò italiano nel Corno D’Africa. Non a caso, infatti, le sopracitate organizzazioni lo hanno a lungo ostacolato, appoggiate da personaggi illustri, quale Idro Montanelli.
Nel 1996, Del Boca riuscì poi a far ammettere allo Stato italiano di aver utilizzato gas nervini durante gli scontri con gli abissini. Inoltre, lo storico scoprì anche quanto avvenuto in Libia e in Albania e mise in luce le deportazioni di massa del Gebel. Tuttavia, nonostante tutto ciò, soltanto negli ultimi anni tali argomenti sono giunti all’opinione pubblica, iniziando timidamente a comparire anche nei libri di storia.
Una simile omertà è figlia del giustificazionismo che gli Italiani fanno su loro stessi, soprattutto negli ambienti di destra. Oggi lo stesso principio porta la nostra popolazione a non interrogarsi sulle condizioni degli immigrati nei centri di accoglienza o rende così semplice puntare i riflettori contro l’ultimo straniero, quando di verifica un furto e/o un omicidio.
Ancora, tale principio entra in atto anche quando, ad esempio in giornate come oggi, si volta lo sguardo altrove, facendo finta di niente: il più classico degli stereotipi italiani.
La Giornata della Memoria in Etiopia, perché ricordarla?
Il motivo per cui è importante ricordare la Giornata della Memoria in Etiopia è quindi presto detto: dobbiamo imparare dai nostri errori. Dobbiamo ricordare le nefandezze commesse per non voltarci più dall’altra parte, soprattutto quando vediamo l’ennesimo episodio di razzismo. Dobbiamo imparare ad interrogarci sulle condizioni degli immigrati e sulle loro sorti una volta arrivati qui.
In Italia, il razzismo è un retaggio culturale e va molto oltre gli insulti per strada o la tifoseria calcistica di Salvini. Il razzismo in Italia è congenito ed ereditario, colpisce chiunque non appartenga alla ristretta cerchia di affetti di cui siamo circondati. Il campanilismo, il nonnismo e la paura dell’ “uomo nero” sono facce dello stesso dado e devono essere sconfitte parallelamente.
La lotta al razzismo, che ognuno può portare avanti lavorando in primis su se stesso, è in Italia la più difficile da combattere, poiché questo male è radicato nel corpo sociale come un cancro. Lo stivale è incrostato di fango, ma in fondo ricorda anche le bellissime campagne italiane, in cui giornalmente, però, gli immigrati lavorano in condizione di schiavitù e non possiamo disinteressarcene.
Marzioni Thomas