La teoria dell’eterno ritorno è uno di quei concetti che si credono di conoscere, ma sui quali non si riflette mai abbastanza.
Sì, perché vuoi la complicazione del ragionamento, vuoi che “chi ce lo fa fare” a pensarci sopra, l’eterno ritorno sta diventando ormai un vuoto intercalare da inserire qua e là per indicare una situazione che si ripete. È curioso invece riflettere sui risvolti che una tale teoria può avere sulla nostra vita quotidiana. Rubrica telefonica compresa.
L’eterno ritorno presso i greci:
Questa teoria è molto antica e i Greci ne sanno qualcosa. Già presente nella loro cultura, diviene terreno di indagine in filosofi come Eraclito, in cui
il nostro mondo […] è e sarà un fuoco eterno che con ordine regolare si accende e con ordine regolare si spegne. (frammento 30)
O in Empedocle che nella sua cosmologia tratta del ciclo cosmico che eternamente si ripete e nel quale l’amore e l’odio si alternano, rubandosi la scena vicendevolmente in una lotta continua.
Alla fine di un mondo, al termine di un regno, un altro si ricreerà, e così via fino al ritorno del primo. Tali considerazioni non devono stupirci. La visione di un tempo ciclico poteva infatti essere data dalla stessa osservazione della natura. Non sono le stagioni stesse che, ciclicamente, si susseguono e ritornano? In fondo, non è divenuta ormai opinione comune che nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma?
L’eterno ritorno di Nietzsche:
Forse oggigiorno l’interpretazione più conosciuta di questa teoria è la sua ripresa da parte del filosofo tedesco F. W. Nietzsche (1844-1900). Sì, proprio quello che qualche reminiscenza scolastica ci ricorda essere l’annunciatore della morte di Dio.
È il filosofo stesso a raccontarci il momento in cui venne sorpreso dal pensiero dell’eterno ritorno. Si trovava nella Valle Engadina, presso Silvaplana ed era l’estate del 1881. Quello era un luogo in cui soleva passeggiare e camminare tra i boschi e in cui lo aspettava una vera e propria folgorazione.
Scrive ne La gaia scienza:
Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione […] e così pure questo attimo e io stesso.
E poco oltre:
L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello di polvere! (Gaia scienza, aforisma 341)
Questo pensiero è ciò che il filosofo chiama pensiero abissale nel suo famoso Così parlò Zarathustra. È qui egli che ci incita affermando non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta? Ed è qui che ci esorta a chiederci chi di noi, alla fine della propria vita avrebbe il coraggio di affermare
Questo fu la vita? Orsù! Da capo!
(Così parlò Zarathustra, “La visione e l’enigma”)
E se dovessi rivivere la tua vita all’infinito?
Ciò a cui non si pone abbastanza attenzione è l’aspetto etico dell’affermazione nietzschiana dell’eterno ritorno. Cosa fareste voi se sapeste che la vostra vita ritornerà all’infinito? Quale valore prenderebbe l’attimo? Ci permetteremmo ancora di dare per scontato il tempo?
Due generi di persone possono nascere dopo l’esperienza dell’eterno ritorno. Si può reagire con un rifiuto della responsabilità davanti alla quale questo pensiero ci pone, fino a raggiungere una sorta di passività nella consapevolezza che “tanto, tutto è già accaduto”. Altrimenti ci può essere la presa in carico di noi stessi e del nostro tempo. L’accettazione attiva di questa sorta di sfida davanti alla quale siamo posti. Con la conseguente valorizzazione di ogni minuto che ci aspetta e che stiamo vivendo.
È Nietzsche che ci stuzzica, che ci sfida, che ci istiga a prendere una posizione. Perché davanti alla questione dell’eterno ritorno, l’unica certezza è che non è possibile non prendere una decisione. Siamo chiamati a fare una scelta. C’è stato gettato un guanto di sfida che non possiamo non raccogliere.
Perché è qui che si gioca il nostro destino. Un destino che ci dice di essere scritto ma che al tempo stesso stiamo sottoscrivendo. Perché per quanto ci ritroviamo ad essere punti su di una circonferenza che prima o poi ritorneranno nella stessa posizione di partenza, noi sentiamo, nonostante tutto che questa è la prima volta che stazioniamo in questo luogo.
Perché, in fondo, ogni volta che una situazione si ripete – e si ripeterà così, nello stesso identico modo per l’eternità – per noi è la prima volta che la stiamo vivendo. E allora, per quanto possiamo sentirci beffati da un futuro che potremmo vedere anche voltandoci all’indietro, noi, ogni volta, siamo portatori di una libertà.
Libertà che sentiamo dinnanzi alla possibilità della scelta. Voglio veramente ciò che sto vivendo ora? Se sapessi che questa giornata la rivivrò all’infinito, c’è qualcosa che cambierei?
Non so voi, ma ogni volta che si riflette su questa visione a cui ben si addice l’immagine dell’uroboro, è forte l’istinto di cancellare alcuni numeri dalla rubrica del telefono. Si ha veramente intenzione di rivivere all’infinito quel caffè con un collega noioso? O continuare frequentazioni non appaganti?
Forse questa teoria sfoltirà la rubrica telefonica, ma di certo arricchirà notevolmente l’unica persona con la quale l’eternità la dovremmo condividere inevitabilmente. Noi stessi.
Caterina Simoncello