L’ ETA depone le armi
Nel giorno dell’attacco USA in Siria un altro evento storico, giovandosi del clamore del primo, è passato sotto relativo silenzio. Dopo oltre 50 anni di guerriglia e a 6 anni dallo stop alle azioni militari, infatti, l’ ETA ha deciso di rendere le armi per perseguire in via pacifica l’indipendentismo basco. Si chiude, quindi, una delle pagine più violente e durature del terrorismo europeo, nonché l’ultima esperienza armata a radicamento territoriale in una fase in cui, almeno nel nostro continente, la lotta per l’autodeterminazione ha assunto i connotati del pacifismo e del dialogo.
La c.d. Questione basca, tuttavia, merita più di un mero cenno sui quotidiani, perché solo un’analisi delle ragioni storiche permette una visione d’insieme delle aspirazioni dei baschi nella Spagna moderna, paese che più di altri vive la spinta separatista delle sue regioni culturalmente più emancipate.
Sette in uno
La storia del popolo basco è una storia di negazioni: i baschi non sono spagnoli, non parlano una lingua indoeuropea, non condividono tradizioni, usi e costumi coi loro vicini.
Costituiscono un’isola culturale denominata Euskal Herria, termine che identifica anche coloro che parlano l’idioma nativo, in una commistione tra linguaggio e territorio che non conosce pari in Europa.
La forte spinta indipendentista, attestata fin dal medioevo nella Chanson de Roland, ha attraversato intatta secoli in cui il territorio basco è stato frazionato tra Spagna e Francia. Ad oggi, infatti, delle sette provincie di Euskal Herria quattro sono in territorio iberico, tre dall’altra parte dei Pirenei.
Ai nostri fini, tuttavia, la storia basca può considerarsi a partire dalla Guerra Civile Spagnola: la vittoria franchista, infatti, spazzò via un periodo di grande fermento culturale in Euskal Herria, iniziato a cavallo tra i due secoli sotto la direzione dei fratelli Arana, e comportò la repressione dell’indipendentismo per almeno due decenni. Fu così che a sul finire degli anni ’50 alcuni studenti diedero vita a Euskadi Ta Askatasuna (Paese Basco e Libertà), meglio nota con l’acronimo ETA.
Il programma del gruppo è sintetizzabile in tre punti:
- Superamento dei confini tra Francia e Spagna ai fini dell’unificazione delle province basche;
- Perseguimento dell’indipendentismo sia con la lotta armata sia con l’impegno politico;
- Difesa dei valori e della cultura basca in un’ottica socialista e fortemente territoriale.
Il tentativo di raggiungere tali obbiettivi è stato causa di un conflitto armato lungo ben 5 decenni, con attentati dinamitardi che hanno causato, dal 1968 al 2007, oltre 800 vittime in Spagna.
Un mutamento genetico?
L’ ETA ha rappresentato la frangia violenta ed estremista di uno spirito nazionalista mai sopito, che sarebbe semplicistico collocare nel terrorismo. In realtà il panorama politico basco è stato animato da numerose formazioni che, ricercando la via diplomatica, hanno tuttavia dovuto confrontarsi con la lotta armata, talvolta discostandosene, talvolta venendovi assimilate.
Al tradizionale EAJ, il partito nazionalista attivo da fine ‘800, si sono affiancati prima Solidarietà Basca (1986) e poi Herri Batasuna: quest’ultima organizzazione, la più affine all’ ETA,è stata dichiarata organizzazione terroristica da USA e UE nel 2003, laddove la frangia armata era inserita nella black list fin dal 2001.
Più in generale, senza addentrarci in un microcosmo di delicati equilibri locali, è da rilevarsi come la transizione dalla lotta armata alla via pacifica abbia subito una decisa accelerazione negli anni che hanno riavvicinato la Spagna post franchista alle democrazie occidentali. In un quadro di sostanziale stabilità l’indipendentismo basco è incanalato in un percorso simile a quello già attraversato dall’indipendentismo irlandese dell’IRA. La via violenta per l’autodeterminazione si colloca infatti in una prospettiva ad oggi antistorica, difficilmente sostenibile in una regione che, godendo di ampia autonomia locale, riesce a difendere i tratti più caratteristici della sua cultura senza rinunciare ad un’integrazione genetica con la Spagna “castigliana” che tocca ormai punte del 70%. Nell’insostenibilità dell’indipendentismo basco, almeno nella sua accezione più estremista, pesa inoltre il minor vigore delle zone francesi, in cui il fermento di Euskal Herria è tradizionalmente recessivo.
Il futuro basco nell’indipendentismo europeo
Il disarmo dell’8 Aprile, annunciato alla BBC, chiuderà una pagina drammatica e romantica della storia europea ma non frenerà le aspirazioni di un popolo che, al netto della globalizzazione, riafferma costantemente il distacco dai paesi che lo inglobano.
Lungi dal credere che i baschi siano sulla via per un referendum indipendentista approvato dall’amministrazione centrale, merita attenzione la circostanza che sull’altro versante della penisola iberica la Catalogna, con altre ragioni e direttrici storiche, stia attraversando una fase di forti spinte autonomiste. In una visione puramente prospettica vi è fondato motivo di ritenere che le due autonome pretese possano alimentarsi vicendevolmente, costituendo l’una il presupposto dell’altra.
Il governo di Madrid, infatti, nel complesso quadro politico risultante dalle elezioni del 2006 si trova a gestire un insieme di autonomie locali estremamente sensibili a che le attribuzioni dell’una non superino quelle dell’altra: in tale situazione il rischio di una deriva (se non separatista, quantomeno) evolutiva è sensibile ed avvertito.
Di certo nella long walk to freedom di Euskal Herria il disarmo dell’ ETA chiude un capitolo controverso e sostanzialmente fallimentare, che mira ora a riciclarsi nelle forme del dialogo politico sull’esempio della Scozia e della stessa Catalogna.
Roberto Saglimbeni