Siamo in Francia, a Parigi, in una delle sale adibite dal club Maintenant. È il 1945. Il posto è gremito di gente che arriva da ogni dove. Studiosi di filosofia e curiosi si amalgamano così per un giorno, tra le mura dell’attesa, mentre Jean Paul Sartre è pronto a tenere uno dei suoi discorsi più significativi: l’esistenzialismo è un umanismo.
L’uomo è responsabile, dice. Responsabile di sé e degli gli altri. Ognuno di noi è legislatore nel mondo. Queste sono alcune delle parole di un discorso intricato, forte, che scuoterà le menti e farà da base a numerosi punti interrogativi per i benpensanti dell’epoca. Che poi, a dirla tutta, i benpensanti di allora non sono molto lontani da quelli di oggi.
Il contesto della conferenza Esistenzialismo è un umanismo
La Seconda guerra mondiale è finita da troppo poco, la Francia auspica una ripresa politica ed economica che riveda una vicinanza collettiva per ricostruire un assetto distrutto.
Allora, leggere romanzi come La Nausea, Il Rinvio e L’età della ragione significa allontanarsi da questo obiettivo comune. Questi testi sono dei pilastri per un uomo che si ripiega su se stesso e rigetta sempre più lo scenario dell’azione.
L’esistenzialismo diventa un problema per la macchina comunicativa. In più, i lavori letterari sono fuorvianti per gli stessi lettori che male interpretano il pensiero filosofico di Sartre.
Così, quando il filosofo ritorna in scena, reduce da anni difficili, la conferenza del ’45 è un momento di rivalsa, dove si cercò di porre gli accenti al posto giusto e di compiere un grande esperimento di volgarizzazione. Alcuni mesi dopo, L’esistenzialismo è un umanismo va in stampa e diventa esso stesso oggetto di dibattito.
“L’uomo è ciò che si fa”: siamo pronti ad accettarlo?
Quando Sartre afferma che l’uomo costruisce la sua vita, egli è progettante per sé e per gli altri, sottolinea poi che non c’è segno, giustificazione, determinismo che stia alla base della scelta. L’uomo è abbandonato, cioè siamo totalmente liberi di scegliere della nostra esistenza. La libertà dunque genera angoscia, essa è inevitabile. Anzi, l’angoscia è uno stato necessario, continua il filosofo, per agire. Perché tutti noi, quando pensiamo all’angoscia, dovremmo pensare a quello stato d’animo di consapevolezza. Diventiamo consapevoli che tutto ciò che si fa non si ferma alla singola esistenza, ma impatterà su quella degli altri. Siamo quindi legati indissolubilmente nella nostra condizione di uomini e il nostro agire non si ridurrà a un’esistenza privata.
“Infatti, non c’è un solo dei nostri atti che, creando l’uomo che vogliamo essere,
non crei nello stesso tempo una immagine dell’uomo quale noi giudichiamo debba essere.”
Questo pensiero così espresso apre le porte ad una grande visione di comunità e di rispetto. Valori che oggi andrebbero rispolverati nella giusta ottica dopo che la pandemia ci ha destabilizzati e ricondotti in una paura del prossimo.
Solitudine e responsabilità: da Esistenzialismo è un umanismo a Van Gogh
Van Gogh dipinse nel 1890 un quadro intriso di solitudine. Lo intitolò “Sulla soglia dell’eternità”; raffigura un vecchio che, seduto su una sedia traballante, ha il viso coperto dalle mani e un bagaglio di esperienze a pesargli sullo stomaco. Guardando il dipinto, ci si rende conto che anche Sartre, durante la conferenza, parlò di una solitudine simile. Il filosofo non usa mai questo termine ma, leggendo il testo, sembra di sentirla comunque, quella che sta in noi stessi, nelle nostre scelte, nel modo in cui ci adattiamo alla realtà.
La solitudine di chi è soprannominato sporcaccione perché si gira dall’altra parte davanti ad una condizione umana accomunante.
Nulla allora disarma più di queste parole:
Possiamo comprendere perché la nostra dottrina faccia orrore a un certo numero di persone. Perché, spesso, esse hanno un solo modo di sopportare la loro miseria ed è di pensare: «le circostanze sono state contro di me, io valevo molto di più di quello che sono stato; è vero, non ho avuto grandi amori, grandi amicizie, ma questo è avvenuto perché non ho incontrato un uomo o una donna che ne fossero degni; non ho scritto libri perché me ne è mancato l’agio. È rimasta, dunque, in me, non usata eppure vitale, una quantità di disposizioni, di inclinazioni, di possibilità che mi danno un valore che la semplice serie dei miei anni non permette di misurare.»
Un’identità in perpetua costruzione
Il vecchio uomo, disegnato da Van Gogh, ritorna alla mente. È così? Ci rattrappiamo su noi stessi consapevoli che non ci sia scampo alla miseria del singolo? Oppure è da quella sedia che il salto va compiuto, nel definire un’identità che si sleghi dall’ambiente. Ma può l’identità slegarsi dall’ambiente in cui si cresce?
In fondo, sono molte le realtà che premono contro la nostra, urtando e paralizzando.
Così, Sartre ci ricorda che la responsabilità non è un macigno. Essa è una nuova prospettiva per l’azione. Essa è libertà. Il solipsismo dell’individuo, dal ripiego, ora si dispiega verso un umanismo esistenziale, fatto di scelta. Il progetto della vita non è destinato ad esaurirsi ma ad evolversi in una costruzione perpetua.
Maria Pia Sgariglia