Olimpiadi terminate, Italia trionfante ed elogio delle frasi fatte: a partire dai commenti sugli atleti che hanno genitori stranieri o che non sono nati in Italia. “Esempio di integrazione” vengono definiti: in questo c’è qualcosa di illogico e fuorviante. Come se l’integrazione fosse un processo demandato interamente al singolo, che arriva e deve dimostrarci cosa sa fare, mentre noi ci godiamo i nostri bei diritti dalla nascita. È il concetto del “deserving migrant”, che vede la cittadinanza come un premio. Facile non essere razzisti quando hai di fronte uno che sbriciola un record del mondo, un po’ meno quando si tratta di una persona che arriva e ha tutto il diritto di essere mediocre. Proprio come noi.
Olimpiadi terminate, grande trionfo degli italiani e occasione, ancora una volta, per parlare di quanto questi eventi ci mettano di fronte alla multiculturalità di un paese che, nelle sue frasi fatte, nei commenti alle gare e nell’esaltazione post medaglia, si porta dietro ancora la zavorra del razzismo.
“Paola Egonu è un esempio di integrazione“, ha detto il Presidente della Regione Veneto Luca Zaia commentando la notizia relativa alla pallavolista italiana selezionata come portabandiera del Comitato Olimpico Internazionale. Qualche giorno dopo, in un suo articolo, Michela Murgia si è sommessamente interrogata sul motivo di quella affermazione. Paola Egonu è cresciuta a Cittadella, in provincia di Padova, ed è nata nella stessa regione. Ha fatto le scuole in Italia e l’italiano è la sua lingua. Certo, è nata da genitori di nazionalità nigeriana.
La trappola del merito
Nell’elevazione a modello del singolo, c’è un scivoloso retropensiero, come sottolinea anche Murgia: Luca Zaia sembra alludere che i genitori di Paola Egonu e lei stessa abbiano avuto il “merito” di non isolarsi, ma “abbiano deciso” di inserirsi nella collettività italiana, anche attraverso la scelta di fare intraprendere alla loro figlioletta lo sport della pallavolo. Intendere in questo modo l’integrazione rischia di demandare al singolo, che arriva da un altro Paese, l’intero carico di lavoro. Come a dire: “Se vuoi fare parte della società italiana, è tuo compito impegnarti, altrimenti noi non possiamo fare nulla”. Possiamo davvero allora definirci una società multietnica e allo stesso tempo tollerante?
Una società tollerante?
Sembrerebbe di no. O, meglio, la nostra tolleranza si spertica in lodi e tweet di celebrazione finché chi arriva ha qualcosa da dare alla causa della patria, sia esso un contributo di tipo sportivo, imprenditoriale o in qualsiasi altro campo. È la logica del “deserving migrant”: in Italia ti riconosciamo l’italianità solo se ti impegni e fai vedere che, nonostante le difficoltà di un contesto iniziale problematico, ne esci con le tue forze. Allora sì, sei un esempio di integrazione. Noi, che invece ci siamo ritrovati perché la sorte ci ha sorriso, possiamo stare solamente fermi e aspettare che tu, migrante, emigrato, rifugiato, figlio di immigrati, non ci dimostri cosa sai fare. E se non sai fare nulla di speciale, esattamente come i milioni di italiani di nascita, di sangue, di suolo, di cognome, di lingua là fuori? Ti arrangi.
“I meriti sportivi”
Abraham Conyedo, atleta di origini cubane e bronzo nella lotta libera a Tokyo per l’Italia, ha ricevuto la cittadinanza italiana il 12 dicembre 2019. La gentile concessione è giunta su proposta della ministra dell’Interno Lamorgese “per meriti speciali”. Così Conyedo ha potuto gareggiare con i colori dell’Italia e una delle quaranta medaglie di questi giochi è proprio sua.
Le gesta eroiche
Se ci pensiamo avviene la stessa cosa quando una persona che non è nata in Italia compie qualcosa di eroico o di eccezionale nella vita quotidiana: ricordate i due bambini che nel 2019 avevano salvato grazie alla loro prontezza i cinquanta compagni dal pullman in fiamme sequestrato dall’autista a San Donato Milanese? La prima reazione della politica per Ramy e Samir era stato quello di pensare alla cittadinanza italiana. Perché? Non che non si tratti di un’iniziativa nobile, nel suo essere una reazione di pancia, ma, forse, tradisce ancora la nostra mentalità implicitamente razzista: siamo tuttora arroccati nella convizione di una cittadinanza meramente in ottica premiale e retributiva: un do ut des dei diritti.
E per tutti gli altri?
E cosa succede invece a tutte quelle persone che non corrono i 100 metri in dieci secondi come Eseosa Fausto Desalu? E a quei bambini che non fanno nulla di eroico per salvare i compagni di classe? Per questo ciò che è accaduto in questi giorni a Tokyo rischia di farci cadere in una trappola: rischiamo di autocompiacerci nella nostra falsa tolleranza, applaudendo la nostra capacità di fare arrivare in alto chi lo merita. Abbiamo visto un’Italia rappresentata da atleti con un colore diverso della pelle, ma ciò non significa che il nostro Paese non abbia un problema con il razzismo e con l’integrazione. Semplicemente, non ce l’ha se queste persone hanno qualità talmente eccezionali e straordinarie da riuscire a emergere, nonostante le difficoltà. Allora, ci rendono più facile non essere razzisti.
L’altro aspetto che rischia di essere oscurato dall’euforia post trionfo è il problema del sistema: siamo sicuri di poter dire che tutti i bambini che arrivano in Italia o che nascono in Italia da genitori stranieri hanno, nel 2021, le stesse possibilità di un bambino che nasce in Italia da genitori italiani? Che potranno frequentare le stesse scuole e gli stessi centri sportivi? Che potranno leggere gli stessi libri? E ancora: avranno accesso alle stesse zone della città in cui ci sono parchi, palestre, campi da calcio, biblioteche? Dove non arriveranno i portafogli dei loro genitori, potrà arrivare lo Stato? Questo, a dire il vero, sarebbe un esempio di integrazione.
La mediocrità di cittadinanza
Forse, la chiave dell’inclusione sta davvero nell’apertura alla mediocrità. La maggior parte di noi non vincerà un Oscar, non trionferà all’Eurovision, non conquisterà una vetta sopra gli 8000. Non sbriciolerà un record del mondo, non fonderà multinazionali, non inventerà social network, non scoprirà la cura per il cancro, così come non salirà mai su un podio delle Olimpiadi. Eppure, a noi nulla è richiesto: abbiamo una lista di diritti che ci spettano per quel famoso lancio di dadi che ci ha fatto nascere a questa latitutidine e non venti gradi più a Sud.
Se Paola Egonu, Eseosa Desalu, Abraham Conyedo e tutti gli atleti nati da genitori non italiani o arrivati in Italia da bambini oggi gareggiano con il tricolore sulla divisa, non è perché siamo un Paese più tollerante, ma semplicemente uno Stato opportunista. Adocchiamo chi eccelle e gli diamo una possibilità. Lo definiamo un “esempio di integrazione”, mentre ci dimentichiamo di chi ha tutto il diritto di essere mediocre. Esattamente come lo siamo noi, mentre ci godiamo la cittadinanza senza dover dimostrare nulla a nessuno.
Elisa Ghidini