Il ricorso all’esecuzione pubblica dice molto sul regime iraniano

Dopo Mohsen Shekari, l’esecuzione pubblica di Majidreza Rahnavard

È avvenuta ieri la seconda esecuzione pubblica in Iran, per volere del regime degli ayatollah, ai danni di un manifestante di 23 anni. Si chiamava Majidreza Rahnavard, arrestato il 17 novembre, la magistratura ha impiegato solo 23 giorni per svolgere il suo processo ed emettere la sentenza di condanna. L’impiccagione  si è svolta nella città di Mashhad prima dell’alba e solo in un secondo momento, dopo la morte del giovane, uno sconosciuto ha chiamato la famiglia di Majidreza per comunicare il luogo della sepoltura.

L’avvocato della famiglia denuncia un processo costituitosi di un’unica udienza, in cui il giovane ha confessato il crimine imputatogli. L’accusa era infatti quella di aver aggredito e ucciso due pasdaran (o “Guardiani della rivoluzione”). Dell’accaduto esiste anche un video, nel quale si vede Majidreza aggredire i due militari, ma dal quale mancherebbe la parte precedente, in cui i pasdaran attaccano per primi i manifestanti.

Qualche numero innanzitutto

La questione non è solamente la liceità o meno della pena di morte, da intendersi sul piano etico, vista la sua ammissione nel codice penale iraniano. L’Iran è infatti un Paese che si serve largamente di questo strumento: secondo i dati ufficiali, le esecuzioni nel 2021 sono state 314. La magistratura condanna in particolare per reati legati alla droga (132 esecuzioni) e a partire dall’accusa di “inimicizia contro Dio”, la stessa mossa contro Mohsen e Majidreza.

L’accusa religiosa viene inoltre usata contro le minoranze: la più colpita è quella dei beluci, con cui da tempo si registrano tensioni (contro di loro è il 19% delle condanne). Le esecuzioni contro le donne arrivano a 14, mentre quelle contro i minori a 3, in aperta violazione dei divieti sanciti dal diritto internazionale.

Quelli del 2021 sono i numeri più alti registrati dal 2017, ma l’anno in corso probabilmente abbatterà questo triste primato. Già dai primi mesi del 2022, prima dello scoppio delle proteste, si è registrato un numero consistente di condanne, a partire anche dal ritorno a ritmi “normali” dei tribunali, grazie all’allentamento delle misure pandemiche. Secondo la legge iraniana, le esecuzioni di condanne avvengono tramite impiccagione o lapidazione nelle carceri in cui il/la prigioniero/a è rinchiuso/a. Si svolgono quasi sempre all’alba, alle 5, prima della preghiera del mattino, la ṣalāt.

Perché è preoccupante si tratti di un’esecuzione pubblica

Perché quindi queste condanne sono particolari? Non (solo) perché avvengono in un contesto di completa rottura contro il regime teocratico, in uno scontro aperto della società civile. Ciò che le rende particolarmente preoccupanti è il fatto che siano pubbliche.

Al regime non “serve” eliminare i manifestanti nel silenzio delle carceri. In questo caso è necessario mostrare che la morte avviene. Rendere noto come il regime opera, mettendo cioè in mostra un corpo vessato dalle torture inerme, in senso fisico e giuridico. Questo è il punto di svolta: uno Stato che si riduce ad usare il mezzo della pena di morte a viso aperto. Le privazioni e la violenza riservate agli oppositori vengono esposte al Paese da un governo che non si cura nemmeno di dare giustificazioni ragionevoli, o anche lontanamente credibili per quelle stesse morti. Si pensi, ad esempio, alle prime motivazioni date della morte di Mahsa Amini.

Esecuzione pubblica ma anche dolorosa. Questa è la combinazione vincente secondo gli ayatollah iraniani. I metodi scelti, infatti, sono pensati affinché la sofferenza del condannato si protragga più del necessario.

La pena di morte nel mondo

L’Iran non è certamente l’unico Paese ad adottare la pena di morte: si pensi allo Stato confinante, l’Afghanistan. Il ritorno dei talebani portava con sé la consapevolezza di un ritorno a questa pratica, ampiamente utilizzata tra il 1996 e il 2001. Nel paese la prima esecuzione pubblica è avvenuta lo scorso 7 dicembre, ai danni di un uomo condannato per omicidio.

Anche i numeri dall’Arabia Saudita sono agghiaccianti. Secondo il report di Amnesty International riguardante il 2021, le condanne sono arrivate a 65. Già per il 2022, però, si stima un numero ben superiore, considerando che solo il 13 marzo 2022 sono stati messi a morte 81 prigionieri.

Di più difficile accesso sono invece dati riguardanti i Paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico. Si stimano essere migliaia le condanne a morte eseguite ma taciute dal regime stesso in Cina, Corea del Nord e Vietnam. La Cina è il Paese con più condanne (seguita dall’Iran): si crede siano nell’ordine delle migliaia le esecuzioni, ma non è possibile confermare il numero. Il rigido controllo dell’informazione operato dal governo e la de-centralizzazione della struttura giudiziaria rendono impossibile la raccolta di dati anche da parte di ONG.

Nel novero dei Paesi occidentali, l’Europa non ammette Paesi che abbiano la pena di morte nel proprio ordinamento giuridico (protocollo n.13, Convenzione conclusa a Vilnius, 3 maggio 2002). L’unica eccezione sul territorio europeo è quello della Bielorussia, in cui lo scorso anno è avvenuta almeno una condanna capitale.

Caso in controtendenza con lo spirito abolizionista sono alcuni stati americani: nel Paese – sempre nel 2021 – si sono registrate 11 esecuzioni. Qui, al pari di Iran e Afghanistan, si tratta di un’esecuzione pubblica: in alcuni Stati, infatti, è necessaria la presenza di testimoni.

Cosa fa intendere questa scelta

Che messaggi veicolano queste morti esposte sulla pubblica piazza? In sintesi, tre.

Il primo – e più immediato – riguarda il messaggio interno al Paese: la volontà di terrorizzare i manifestanti. Applicare il pugno duro, mostrare agli oppositori e alle oppositrici che il prezzo per chi colpisce il regime è la vita. La decisione di rendere l’esecuzione pubblica vuole perciò essere tanto un mezzo punitivo quanto dissuasivo. Gli ayatollah sperano – forse – in una rinuncia collettiva alle proteste.

In secondo luogo, si vuole mandare un messaggio alla comunità internazionale, in particolare a quella occidentale. Si potrebbe infatti leggere come prova di forza: il governo iraniano decide di rispondere con un simbolo – la pubblica impiccagione – alle sanzioni annunciate. Lo scorso 12 dicembre, infatti, il Consiglio europeo ha approvato il terzo pacchetto di sanzioni contro l’Iran, che comprende il divieto di viaggio da Paesi UE.

Un terzo messaggio è, infine, quello veicolato rispetto al regime stesso. La decisione di rendere pubblica la violenza di Stato può essere spia degli equilibri interni. L’uso di mezzi violenti da parte della Repubblica è indice del fatto che la legge, in questo caso la Shari’a, non ha più una reale presa sulla popolazione. Nel momento in cui la Costituzione iraniana è di fatto mezzo inservibile per arrestare la rivolta, la repressione e i suoi simboli sono sintomo di un’amministrazione che sta giocando la sua ultima carta nei confronti dei e delle manifestanti.

Un modus operandi che riporta al periodo del Terrore

Un uso della violenza pubblico e spietato che riporta alla memoria pratiche politiche che sembravano sopravvivere solo nei libri di storia. Impiccagioni che si prospettano numerose ricordano l’applicazione smodata delle ghigliottine, in voga durante il Regime del Terrore (settembre 1793 – 27 luglio 1794). In un parallelismo forse azzardato, la pena di morte viene allo stesso modo usata come mezzo per dissuadere la folla dall’opposizione al nuovo regime. In pieno spirito rivoluzionario, si credeva di poter far spazio ad una nuova forma di governo, più giusta ed equilibrata, servendosi del mezzo violento. Uccidere pubblicamente i sostenitori dell’Ancien règime era considerato il modo più efficace (sicuramente più d’impatto) per spingere la popolazione francese a sostenere la rivoluzione giacobina. Si pensi solamente alle condanne a morte pronunciate negli ultimi giorni di vita del Regime: 1285 tra il 10 e il 27 luglio 1794.

Da una parte, la ghigliottina per i «nemici della Rivoluzione», dall’altra, l’impiccagione per «l’inimicizia contro Dio» − o meglio, contro questa applicazione della Shari’a.

Alice Migliavacca

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