Escalation tra Israele e Palestina, quali scenari per il futuro?

Escalation tra Israele e Palestina

Escalation tra Israele e Palestina, riforma della giustizia, radicalizzazione della società: questi gli argomenti trattati nel webinar del 2 febbraio organizzato dall’ISPI.

In Israele le piazze sono gremite di gente. Che protesta, che esprime il proprio dissenso contro uno dei governi più a destra della sua storia. Ma come si è arrivati a questo livello di tensione? E quali sono i possibili scenari futuri della questione palestinese, partendo dalla situazione politica odierna di Israele?

Nel webinar, intitolato “Escalation Israele-Palestina: verso un nuovo conflitto?” intervengono a riguardo Anna Maria Bagaini, post doctoral Fellow dell’università di Gerusalemme; il professor Gianluca Pastori, della Cattolica di Milano; Ugo Tramballi, Senior Advisor dell’ISPI. La relatrice dell’incontro è Valeria Talbot, Co-Head dell’osservatorio MENA dell’ISPI.

La situazione politica interna

Dopo una breve introduzione, Anna Bagaini approfondisce le dinamiche interne alla coalizione di governo, con a capo il primo ministro Benjamin Netanyahu. Ciò che si evince da alcuni elementi è che il presidente del partito Likud stia cercando da un lato di preservare il prestigio acquisito durante i precedenti mandati, dall’altro di concedere spazio alle agende degli alleati, gli ultraortodossi Shas, Giudaismo Unito della Torah e l’estrema destra di Sionismo Religioso. Questi ultimi, infatti, hanno ottenuto i ministeri dell’Interno, dello Sviluppo Urbano e della Sanità. E adesso spingono per la riforma giudiziaria, che il governo dovrebbe approvare nel mese di marzo. La riforma, insieme alla recrudescenza del conflitto in Palestina, preoccupa gli alleati americani, che vedono sempre più lontana la possibilità di una stabilizzazione nell’area mediorientale.

L’intervento successivo del professor Pastori si concentra proprio sul ruolo americano nelle dinamiche interne israeliane. Pastori fa riferimento alle visite in successione del consigliere per la sicurezza USA Jake Sullivan, del direttore della CIA Joseph Burns e del segretario di Stato Anthony Blinken sul suolo israeliano. Le aspettative non erano alte, e in effetti le visite non sembrano aver avuto particolare rilevanza; la questione israelo-palestinese non è più una priorità nell’agenda americana, anche se l’amministrazione Biden continua a sostenere la pacificazione dei rapporti e crede che la soluzione dei due Stati sia l’unica veramente praticabile. L’amministrazione starebbe anche provando a rilanciare le politiche dell’ex presidente Obama, che miravano a recuperare l’Iran come attore regionale per facilitare il dialogo tra Teheran e Tel Aviv.

Il conflitto nella società civile

La parola passa ad Ugo Tramballi, che spiega come nel tempo la società civile israeliana si sia spostata sempre più a destra. Il punto di non ritorno sarebbe la seconda Intifada, la rivolta palestinese esplosa a Gerusalemme in seguito al fallimento degli accordi di Camp David; da quel momento i cittadini ebrei hanno ritenuto sempre più improbabile una riappacificazione con gli arabi e le loro preferenze elettorali si sono orientate verso le frange più estremiste. Dal 1977, quando il Likud vinse le elezioni per la prima volta, i laburisti sono tornati al governo solo in due occasioni.

Le speranze più grandi per un alleviamento della tensione, a parte la mediazione americana, sono il motore economico del paese: le imprese, le startup, i piccoli e grandi commercianti che si concentrano a Tel Aviv e in altre città. Molti di loro stanno già preparando un’eventuale fuga all’estero se il governo dovesse assumere caratteri più integralisti o autoritari. E ciò costituirebbe un elemento di pressione non trascurabile per la coalizione di Netanyahu.

I dettagli della riforma giudiziaria

In seguito, la Bagaini torna ad approfondire il tema della giustizia e le implicazioni della virata a destra del governo. La studiosa mette in evidenza come Israele non abbia di fatto una Costituzione, ma solo delle basic law, cioè leggi con valenza costituzionale, e che le riforme in programma per marzo potrebbero alterare irreparabilmente il delicato equilibrio su cui si reggono le istituzioni.

Nel dettaglio, le misure più controverse della riforma sono due: la prima, l’introduzione di una clausola che permetterebbe al governo di ignorare la discussione di una legge in Parlamento, scavalcando di fatto una procedura democratica. La seconda, l’annullamento della causa di ragionevolezza, che fino ad ora permetteva alla Corte Suprema di impedire l’approvazione di una legge nel caso in cui non ci fossero motivi ragionevoli per sostenerla. Questa prerogativa è stata utilizzata, per esempio, per impedire la nomina di Aryeh Deri a ministro degli Interni, visto che lo stesso aveva dei precedenti per reati fiscali. Altra postilla, non meno rilevante, è quella che vorrebbe la nomina dei giudici della Corte Suprema nelle mani del governo, minando così l’indipendenza del potere giudiziario.

Le responsabilità dell’escalation tra Israele e Palestina

Torna a prendere la parola Ugo Tramballi, che affronta le responsabilità di entrambe le parti in conflitto. Sicuramente una mancanza palestinese è stata l’incapacità di rinnovare la sua classe di rappresentanti ufficiali, che Tramballi definisce come una gerontocrazia, fuori da ogni contatto con la popolazione araba. I palestinesi inoltre sarebbero vittime della cultura politica araba massimalista, che nel tempo li ha portati a rifiutare le concessioni di Israele. Secondo quest’orientamento, accettare qualsiasi accordo che non preveda il riconoscimento dello Stato di Palestina sarebbe un segno di debolezza; la mediazione lascerebbe allora posto all’estremismo politico.

Tuttavia, anche gli israeliani sono nel mezzo di un’impasse totale: l’influenza del sionismo e della religione ebraica nelle istituzioni è capillare. Tanto che l’ex primo ministro David Ben Gurion non volle affrontare la questione della costituzione, perché ciò avrebbe implicato un’analisi profonda e critica della questione “Stato-Chiesa” in versione israeliana. E la presenza dei due partiti ultraortodossi al governo è un segnale molto forte di questa pervasività:

Uno vorrebbe rendere Israele un Paese confessionale e totalitario, l’altro vorrebbe minarne le basi instaurando un vero e proprio Stato dentro lo Stato su base religiosa.

Gli accordi di Abramo

In conclusione, il professor Pastori ritorna sul ruolo degli Stati Uniti nella regione mediorientale, citando gli Accordi di Abramo come un potenziale disinnescante delle tensioni. Gli accordi che l’ex presidente Donald Trump aveva elaborato, e che l’amministrazione Biden ha rilanciato sarebbero l’unico modo valido di promuovere una normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi. Uno sguardo di favore è rivolto all’Egitto, primo Paese arabo a firmare una pace con Israele e a sviluppare dei rapporti di cooperazione, e all’Arabia Saudita, che ha il potenziale di dare una svolta ai tentativi di dialogo. Tuttavia, bisogna ricordare che con la guerra in Ucraina e il crescente interesse degli Stati Uniti nell’area del Pacifico, il governo USA ha perso la volontà di agire da mediatore e tende a delegare il ruolo alle potenze della regione.

Dal dibattito emerge sicuramente una prospettiva disillusa. Sono lontani i tempi dell’ottimismo, e il futuro del conflitto israelo-palestinese dipenderà soprattutto dalle prossime mosse del governo Netanyahu. Rimane però concreto il rischio che si intacchino la sicurezza del Medioriente, la già fragile democrazia israeliana e i diritti, ormai spesso calpestati, della martoriata popolazione palestinese.

Lorenzo Luzza

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