La sola parola “filosofia” genera nei più la sensazione di qualcosa di troppo complesso, non alla portata di tutti.
Sarà per questo che, per presentarci i temi chiave sui quali da sempre questa si interroga, Ermanno Bencivenga ha scelto un linguaggio insolito: quello, più semplice, delle favole.
Nel corso di quasi un trentennio, la sua fantasia ne concepisce sempre di nuove, fino ad arrivare a comporre “La filosofia in ottantadue favole” edito da Oscar Mondadori.
Con l’innocenza e la meraviglia tipiche dell’infanzia, ci si immerge in un mondo bizzarro e contraddittorio, dove più che risposte, troveremo invece nuove domande, tornando come i bambini nuovamente a chiederci il “perché” che si cela dietro le cose della vita.Mondadori
Trattare tematiche filosofiche attraverso il semplice linguaggio della favola rappresenta un approccio originale. Come nasce questa proposta editoriale?
La proposta nasce dall’incontro fra un tema teorico e un tema personale, entrambi estremamente sentiti. Da un punto di vista teorico, ho sostenuto che il filosofo è un bambino che si rifiuta di crescere: che a risorse intellettuali mature (esperienza, cultura, abilità espressiva) accompagna la curiosità, la giocosità, l’impertinenza di un bambino. Il linguaggio più appropriato per la filosofia, dunque, è quello in cui la profondità dei temi si unisce con l’innocenza della domanda. Da un punto di vista personale, le prime favole sono nate quando i miei figli erano piccoli e mi risultava naturale parlare con loro in un linguaggio comune, senza rinunciare a quel che mi appassionava, e che presto ha cominciato ad appassionare anche loro. Quando di favole ce ne sono state abbastanza, le ho mostrate a Gian Arturo Ferrari, allora direttore editoriale di Mondadori, e lui ci ha messo pochi minuti per decidere di pubblicarle.
Nel suo libro dimostra che il collegamento tra la filosofia e la favola, da tutti comunemente affiancata al mondo infantile, non è solo possibile, ma anche molto efficace nel coinvolgimento di un pubblico adulto. In che modo, invece, la filosofia potrebbe generare interesse nelle generazioni attuali dei più giovani?
Una delle più grandi soddisfazioni che le favole mi hanno dato è che artisti di ogni genere ne sono stati ispirati per produrre opere che ne prendevano spunto. Sono state illustrate da pittori e fumettisti, musicate, sono diventate oggetto di video e di mostre fotografiche, sono state portate in teatro. Qualcuno forse potrebbe oggi farne oggetto di una graphic novel o di una performance su Youtube per trasmetterle a una nuova generazione di bambini/adulti/filosofi.
La sua è una lunga carriera accademica impreziosita da numerosi riconoscimenti e gratificazioni. Trova cambiata la valenza della filosofia se accostata ai diversi contesti generazionali che ha avuto modo di conoscere?
Ho avuto la fortuna di vedere da vicino molti degli ingegni migliori di due generazioni. Quarant’anni fa, soprattutto in America, la filosofia e in generale le discipline umanistiche erano avvantaggiate dalla guerra fredda: l’Occidente si presentava come depositario della libertà di pensiero e di critica, i giovani erano attraversati da fermenti di rivolta e la discussione filosofica, e in generale umanistica, era molto popolare. Oggi le stesse discipline sono in ritirata: dominano il mercato e l’intrattenimento più becero. Ma la cosa non mi turba: la filosofia ha visto tempi ben peggiori, in cui i suoi praticanti erano torturati o bruciati al rogo. Occorre continuare nel proprio lavoro con convinzione e con rigore.
Filosofia e pensiero avanzano in modo sinergico. Non crede che con lo sviluppo informatico l’esercizio del ragionamento stia gradualmente sparendo a favore della semplice condivisione di idee e pareri che trovano più spazio e diffusione sui social network?
Ha detto bene: si ragiona sempre meno e si esprimono sempre più opinioni. Per usare termini greci, si passa sempre più dalla filosofia alla filodossia (dal greco dóxa: opinione). Per ragionare ci vuole tempo, e nel mondo contemporaneo di tempo ce n’è sempre meno. Siamo assediati dalle notizie, perlopiù superficiali. Quel che richiederebbe ore di riflessione è soffocato da stupidaggini a ciclo continuo, che non lasciano tregua.
Se sempre di più qualcun altro ragionerà al nostro posto, il rischio principale non potrebbe essere una regressione della condizione dell’essere umano nel mondo? Come scongiurare questo rischio?
Ho parlato di questo rischio in un altro mio libro. Quando abbiamo demandato a macchine delle nostre funzioni, ne abbiamo gradualmente perso il controllo. È successo con la locomozione: una volta si camminava, oggi si va in macchina dappertutto. E può succedere con le macchine logiche, i computer che ci danno risposte immediate per ogni quesito e ci permettono di non ragionare più. La risposta a questa sfida, per me, può essere solo consapevole e umile: così come andiamo in palestra per svolgere attività fisiche altrimenti non richieste, dovremmo esercitarci costantemente in piccole pratiche di ragionamento. Nel mio libro do esempi di come farlo, basati su un programma che per cinque anni ho diretto alla Luiss di Roma.