Erdogan e il sogno neo-ottomano

Erdogan e il sogno neo-ottomano

Michele Marsonet Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane Ultima Voce

Michele Marsonet

Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane


Erdogan e il sogno neo-ottomano, una visione politica che mira a riportare in vita l’antico impero, unendo elementi di islamismo tradizionale e nazionalismo turco. Nonostante possa sembrare un’utopia, ci sono elementi che suggeriscono la sua realizzabilità.

E’ noto che Recep Tayyip Erdogan ambisce a presentarsi come erede legittimo di Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della moderna Turchia. Con l’eccezione, ovviamente, del laicismo che il “padre dei turchi” introdusse e che Erdogan invece aborrisce. Eppure, agli inizi della sua carriera politica, si era presentato come un moderato attento all’insegnamento di Ataturk e disposto a continuare, pur in modo diverso, la sua strategia di laicizzazione dello Stato.

Gli ultimi avvenimenti, con l’appoggio all’annessione azera de facto del Nagorno-Karabakh abitato dagli armeni, e l’invasione del territorio siriano per neutralizzare i curdi, ci riporta alla vera natura del progetto di Erdogan, che contempla un mix di islamismo tradizionale e nazionalismo turco. Nonostante le apparenze, è quest’ultimo a prevalere, giacché Erdogan non rinuncia al sogno di riportare in vita – pur adattandolo al tempo presente – l’impero ottomano.

Sembrerebbe un’utopia priva di fondamento ma, a ben guardare, vi sono elementi che possono far pensare alla sua realizzabilità. Occorre solo tener conto che le lingue di ceppo turco, e le culture ad esse correlate, non sono diffuse soltanto nel territorio nazionale, ma anche in molte aree asiatiche tra cui l’Azerbaijan, il Turkmenistan, il Kazakistan e altre repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale (con l’ovvia esclusione dell’Armenia). Parlano una lingua turca anche gli uiguri dello Xinjiang cinese, popolazione musulmana le cui tendenze indipendentiste vengono duramente represse dal governo di Pechino.

Erdogan sfrutta questa situazione promuovendo l’espansione culturale turca tra le popolazioni turcofone stanziate al di fuori dei confini nazionali, e finanziando al contempo la costruzione di moschee nei Paesi che le ospitano. Notevole anche l’opera di proselitismo tra gli emigrati nelle nazioni europee, in primo luogo la Germania, e in Paesi come l’Albania che, anche dopo l’indipendenza, ha conservato un forte legame con Ankara.

Di conseguenza promuove la rivalutazione delle grandi vittorie, militari e politiche, conseguite dall’impero ottomano. In primo luogo la cancellazione dell’impero bizantino con la conquista di Costantinopoli, divenuta poi Istanbul, e poi la vittoria ottomana su francesi e inglesi a Gallipoli durante la prima guerra mondiale (l’episodio bellico, per inciso, che rese celebre Ataturk).

Tuttavia anche le sconfitte ottomane vengono viste quali occasioni di rivincita postuma, per esempio la battaglia di Lepanto, la mancata conquista dell’isola di Malta difesa dai cavalieri di San Giovanni, e la sconfitta delle truppe ottomane giunte sotto le mura di Vienna nel 1683. Erdogan, insomma, ha in mente la “grande Turchia” identificata con l’impero ottomano e, non a caso, in un recente discorso ha detto: “siamo una grande famiglia di trecento milioni di persone dall’Adriatico alla Grande Muraglia cinese”. Si tratta di una nuova versione del “panturanismo”, movimento culturale e politico che pinta alla fusione di tutte le popolazioni di ceppo turco.

Questo progetto panturco è tuttavia supportato, più che da un’economia in pesante crisi, da una potenza militare rimasta intatta anche dopo l’epurazione di alti ufficiali seguita al fallito golpe del 2016. Ed è la base dell’attuale diffidenza turca nei confronti dell’Occidente e della Nato, alleanza di cui la Turchia fa tuttora parte ma con un profilo assai più defilato rispetto al recente passato.

Occorre comunque chiedersi sino a che punto le ambizioni di Erdogan siano realmente fondate. La Turchia è indubbiamente una grande potenza regionale, ma per trasformarla in potenza globale ci vuole ben altro. Erdogan in fondo lo sa, e infatti cerca di bilanciare l’allentamento delle relazioni con l’Occidente rafforzando i rapporti con Russia, Iran e Cina (nonostante la persecuzione degli uiguri da parte di Pechino).

Inoltre il leader turco ha 69 anni, e per ora non sono comparse nel suo partito AKP (Giustizia e Sviluppo) personalità altrettanto carismatiche in grado di portare avanti le sue ambizioni globali. Senza scordare che in Turchia c’è la stessa dicotomia città/campagne rintracciabile in altri Paesi come Polonia e Ungheria. Le campagne anatoliche votano Erdogan in blocco, mentre le grandi città come Istanbul e Smirne gli sono in maggioranza ostili. E anche questo è un segnale che il suo sogno neo-ottomano potrebbe presto finire.

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