Di Roberto Allegri
<<Per favore, non chiamarmi maestro>>. E’ la prima cosa che mi dice Enrico Montesano, facendomi entrare nella sua bella casa romana. E subito dopo, pescando da una scatola all’ingresso: <<Ti chiedo anche la cortesia di metterti queste soprascarpe. Le strade di Roma sono sporchissime. Dobbiamo in qualche modo difenderci>>.
Dopo tre figli e altrettante visite in sala parto, l’operazione di indossare le soprascarpe è per me quasi routine. Quindi, con le suole ben protette, seguo il padrone di casa in un grande salotto dai mobili scuri strapieni di libri. <<I libri sono stati sempre i miei veri amici>>, mi dice. <<Mi sono innamorato di Borges, ad esempio, e dopo aver letto il suo “L’Aleph” ho cominciato ad imparare l’alfabeto ebraico. E poi Calvino, Pirandello, Emile Cioran e soprattutto Proust. E i poeti Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Alfonso Gatto, Gadda. Penso che il nostro Paese, specie al giorno d’oggi, abbia meno bisogno di opinionisti e di cuochi, e tanto, tanto bisogno di poeti. Abbiamo tutti bisogno di aprire la mente, di affacciarsi su orizzonti nuovi. E i libri aiutano molto in questo.>>
Confesso che è difficile rivolgersi a Montesano senza provare l’impulso di chiamarlo “maestro”. Appellativo ampiamente meritato. E’ infatti uno dei grandi del teatro degli ultimi cinquant’anni e ha fatto anche la storia della televisione. Nella sua carriera ha vinto tre David di Donatello, un Nastro d’Argento e anche la Rosa d’Oro nel prestigioso Festival di Montreaux. E’ attore, regista, cantante, ballerino, scrittore. <<Ma se mi chiamano maestro, mi viene da ridere>>, spiega. <<Maestro significa che non hai più niente da fare e puoi solo insegnare, che non hai più da imparare. E invece io ho tantissimi progetti. La verità è che mi sento sempre un allievo e apprendo da tutti quelli che incontro.>>
Montesano si gode la pausa estiva dalle scene. A settembre riprenderà al Teatro Sistina di Roma le recite della commedia musicale “Il Marchese del Grillo”, con la quale ha debuttato nel dicembre scorso e che ha riscosso un enorme successo. Tra i suoi impegni, continua la promozione della sua autobiografia “Confesso. Vita semiseria di un comico malinconico” (edita da Piemme) uscita da qualche mese.
<<Mi suona strano dire “autobiografia”>>, dice ancora. <<Non mi chiamo Raffaello o Michelangelo, non mi chiamo Albert o Marcel. Mi chiamo semplicemente Enrico. Quello che posso raccontare è di essere un buon professionista, di avere fatto tante esperienze in vari campi. Ma di sicuro agli italiani la mia vita non può interessare. Così più che una autobiografia, ho voluto scrivere un libro che è una sorta di zibaldone, molto libero, dove ci sono un po’ di fatti miei ma anche ciò che penso riguardo al cinema, alla politica, ai libri, allo sport. Insomma come se stessi parlando con un amico al bar davanti ad un caffè o ad un bicchiere di vino.>>
<<Tornando alla parola “maestro”. Di maestri veri ne ho avuti parecchi nella mia vita. A partire da quell’amico che nelle feste di piazza imitava Ridolini e che negli anni sessanta mi fece esibire nel suo night club. Poi Leone Mancini con cui iniziai a fare cabaret. Lui ebbe la geniale idea di sceneggiare le barzellette e fu un successo. Era il 1968 e una sera vennero a vederci Castellano e Pipolo. Loro poi mi portarono a Milano a fare “Che domenica, amici” in televisione. Poi Pietro Garinei, che realizzò il mio sogno di fare la commedia musicale al Sistina, il teatro più importante di Roma. E ovviamente Aldo Fabrizi con cui nel 1978 feci “Rugantino”. Un attore di una bravura eccezionale. Ci chiedeva sempre se avevamo mangiato, era preoccupato ci nutrissimo poco. Ricordo un aneddoto straordinario. Un giorno, vidi Fabrizi chino su una rivista. La stava sfogliando con aria triste e ogni anto sospirava rassegnato. Cosa succede? State bene?, gli domandai. E lui: “E’ un peccato, questi non li fanno più!” e mi mostrò le pagine che stava leggendo. Era un catalogo dei tipi di pasta che avevano messo fuori commercio.>>
<<Non ci sono più gli attori di un tempo. Sembra una frase banale ma è così, è la verità. Gli attori talentuosi esistono anche oggi ma il guaio è che hanno tutti fretta. E fanno troppa poca gavetta. Però non è tutta colpa loro, è cambiato il mondo. Oggi si presta più attenzione ai soldi, al budget, è tutto più frenetico. Una volta non era così. Un giorno Pietro Garinei mi disse: “Io non faccio questi spettacoli per guadagnare”. Ed era vero. Si pensava prima a fare le cose bene, col loro tempo. Poi al resto.>>
<<Quello odierno è un modo veloce, appunto. Un mondo dove è necessario avere una mente altrettanto rapida, dove si devono fare le scelte e prendere le decisioni quasi a tempo record. Funziona così, ma si deve prestare attenzione a non perdere di vista i valori, ad esempio. Sono i valori che rendono le persone complete. Ho esperienze di giovani perché ho sei figli. E mi rendo conto che oggi i ragazzi vanno un po’ per conto loro. Scartano ciò che li annoia e così perdono in fretta interesse per i problemi, per le opinioni. Però, non si può soltanto accusare i giovani, puntare il dito contro di loro e giudicarli. I giovani sono soprattutto sfruttati perché sono grandi consumatori. Si pensa poco a farne persone come si deve perché è più importante quanto consumano. I giovani invece vanno allevati, seguiti, aiutati. Dai genitori e anche dal Paese dove vivono.>>
Enrico Montesano si alza per rispondere al telefono e nel frattempo, io mi aggiro per la stanza curiosando. La mia attenzione viene subito attratta da una fotografia che lo ritrae insieme a Giovanni Paolo II. Quando rientra in salotto, gli chiedo di raccontarmi.
<<Quello con Papa Wojtyla è sicuramente l’incontro più importante che ho mai fatto>>, mi dice. <<Lo incontrai in udienza qualche anno prima che morisse. Era già molto malato. Ricordo che con me c’erano mia moglie e i miei figli Michele e Marco. Loro erano piccoli e continuavano a correre su e giù per i corridoi davanti allo studio del Papa, zigzagando tra monsignori, ambasciatori e cardinali. Poi ci fecero entrare. Il cardinale Giovanni Battista Re, che sovraintendeva alla cerimonia delle visite, disse al Papa che ero un attore. E allora lui, che in gioventù aveva recitato, alzò il viso e mi guardò intensamente. Occhi chiari, penetranti che mi trapassarono. Uno sguardo fulminante e luminoso, da persona giovane e forte.>>
<<Tra le persone che non dimenticherò mai c’è anche Walter Chiari. Anche lui un maestro, un mito. Come ti teneva ancorato lui al televisore, non ci riusciva nessuno. In un periodo in cui i comici vestivano lo smocking ed erano tutti abbastanza buffi, lui arrivava con un maglione, alto, bello e atletico. E incantava le platee. Era uno molto avanti. Ma vorrei dire anche di un altro Walter che porto nel cuore e cioè Walter Bonatti, il leggendario esploratore. Mi onora pensare di essergli stato amico. Fu lui a trasmettermi la passione per l’arrampicata. Con Walter sono salito su diverse vette. Ricordo che una volta a Cortina abbiamo scalato il Becco di Mezzodì, più di 2500 metri, su una via che non si faceva da quarant’anni. Durante la discesa, fummo investiti da un temporale. Walter mi disse di non avere paura ma l’acqua mi entrava nelle maniche e mi usciva dai calzoni. Dentro di me pensavo: “Facile dire di non avere paura: tu sei Walter Bonatti!”. Alla fine andò tutto bene e quando tornammo al rifugio mi aspettavo di vedere volti tesi e preoccupati e invece mi dissero: “Eravamo tranquilli. Tanto stavi con Bonatti.”>>