In una società massmedializzata fino all’ossessione, le televisioni prima, gli smartphone dopo sono assunti come canali per trasmettere le emozioni di cui quotidianamente, più volte al giorno, si nutrono.
Da Instagram a Pomeriggio 5 regna sovrana la mistificazione dell’emozione su una terra di analfabeti emotivi.
Cosa sono i talk show televisivi se non irrefrenabili treni ripieni di tritolo lanciati a bomba nei soggiorni degli italiani per innescare una catena di emozioni vacue? Cosa sono se non programmi studiati a regola d’arte per creare un canale comunicativo che, bypassando il cervello, arriva dritto all’intestino turbolento? Non sono null’altro che operazioni “chirurgiche” sul setto emotivo di ciascun telespettatore con l’intento di rassicurarlo e proteggerlo dalle tristezze del mondo attorno, di assopirlo nei confronti dei suoi diritti-doveri, di addomesticarlo seguendo l’abbacinante riflesso del successo.
Attraverso la deviazione del turbinìo emotivo sul binario morto del non-pensare, i social network con la sua severa matrigna, la televisione, soverchiano una regola non scritta secondo cui le emozioni, soprattutto le più intime, vadano rinchiuse all’interno della cassaforte-mente affinché possa essere salvaguardato in tutta segretezza il loro valore.
Da almeno vent’anni invece assistiamo alla spettacolarizzazione pubblica delle emozioni. Come se non fossero più esperienze da vivere e assaporare in prima persona, ma rappresentazioni teatrali dei vissuti personali.
A scene più scalpitanti e strappalacrime e più trash corrisponde un maggior appeal emotivo che si traduce, nel linguaggio sonante del consenso, in una maggiore audience televisiva. O, nel caso delle influencer mondane, in un pacchetto di 10mila follower da aggiungere in più alla già tracotante pila di ammiratori pubblici.
Le emozioni, peraltro, non fanno solo spettacolo, fanno anche notizia. Ricoprono le prime pagine dei quotidiani e dei settimanali, rivestono un ruolo di primo piano nelle campagne elettorali, sono anche la differenza tra un film di successo e un film che non è mai sbarcato al botteghino, tra un libro scialbo e un best-seller internazionale, tra una canzone radiofonica e una da piano bar.
La cronaca ama inorridire il lettore o lo spettatore con notizie relative a violenze, omicidi, furti, o femminicidi descritti come “momentanei” raptus furenti culminati con l’uccisione del coniuge. In questo modo si lascia aperta nella fragile mente di chi legge e ascolta la porta dell’inquietudine sulla normalità. Le notizie migliori, infatti, sono quelle che dipingono i serial killer come cittadini modelli, come ragazzi della porta accanto, come persone normali che, per qualche occulta ragione, abbiano deviato dalla lineare e piatta routine.
Non risiede solo in questo la forza prorompente delle emozioni. Emozioni e conoscenza sono intimamente correlati.
Nel percorso di conoscenza della realtà, l’individuo è chiamato attraverso il riconoscimento dell’identità e delle alterità a far fronte alla duplice veste delle emozioni.
Da una parte, le emozioni sono il catalizzatore positivo o negativo dei processi cognitivi del conoscere (la paura senza nome che ci fa abitare nell’immobile ignoranza di chi non capisce più nulla, la motivazione entusiasta che decripta e rende comprensibili i testi più esoterici, le formule matematiche più astratte); dall’altra parte, le emozioni possono essere un potente rinforzo, quanto un’irremovibile condanna, dei nostri giudizi-pregiudizi che trasformano una valutazione cognitiva personale in un categorico giudizio universale. Pensiamo al razzismo, e a quanto sia determinante il ruolo delle emozioni nell’esprimere voti e consensi.
Se l’intreccio tra emozioni e conoscenza è tanto forte quanto indiscutibile, il discorso narrativo del sé – il modo in cui noi ci raccontiamo – può diventare un nodo che ci ancora sicuri se ruotato attorno alla ricerca di una consapevolezza emotiva, o può contorcersi, fino a trasformarsi in un cappio che stringe sul collo, se tutta la narrazione persegue una finalità imitativa del modello dominante spacciato per “giusto, bello e sano” dai canali televisivi e dalle pubblicità.
Non serve dire che questi ultimi si nutrono della fame di emozioni a cui noi, silenziosamente, spalanchiamo le fauci per ingurgitare l’ennesima emozione vuota, un’altra emozione senza pensiero, senza nome.
È in questo senso che l’analfabetismo emozionale chiama in causa la capacità degli insegnanti, dei genitori di indicare ai giovani le strade per entrare in rapporto con il lato profondo delle emozioni.
Nello spazio ristretto del televisore e in quello del telefonino, si è esposti a un bombardamento di stimoli lanciati con l’unico scopo di suscitare emozioni in chi li incontra. Emozioni che ben pochi sanno riconoscere, chiamandole per nome, imparando a metterle in parole, a usarle come strumento di risoluzione dei conflitti interiori ed esteriori.
È tutto questo allora la bulimia emotiva cui siamo tutti esposti di fronte ai televisori e nel marasma virtuale dei social network.
Pensiamo ai talk show del pomeriggio o della sera in cui vengono invitati personaggi discutibili con il solo scopo di generare, attraverso la rabbia, la gelosia, il risentimento, una “flame” mediatica. Oppure ai programmi di cucina – tanto di moda adesso – che rappresentano tentativi di spettacolarizzare un’attività piuttosto dozzinale come il cucinare. O ancora la geniale idea di rinchiudere in una casa una decina di sconosciuti per filmarli e vedere quale reazione emotiva scateni in ognuno di loro la convivenza forzata.
È tutto questo lo smog invisibile che sovrasta le nostre esistenze multimediali con il pennello che cancella l’altro evidenziando il noi.
Siamo come passeggeri di una carrozza che viaggia nel mercato delle emozioni.
“Chi offre di più? Oggi abbiamo una madre che ha perso il figlio mentre giocava a pallone. Chi è disposto a pagare per osservare le ferite di questa donna stuprata dal cognato? Venite, venite, sto per vendervi la storia di un padre che ha visto bruciare il suo piccolo…”
berciano gli smargiassi spacciatori di storie struggenti.
…e tante altre storie possono essere vendute, incapsulate nel vetro di un televisore e date in pasto ai famelici leoni da divano affinché possano, non riconoscersi, ma compiacersi nel dolore dell’altro.
Occorre a questo punto fermare la carrozza implacabile verso nessun dove, arrestare la sete bulimica, la mercificazione delle emozioni.
Attraverso un rivolgimento verso l’interno, insegnare la coscienza e prestare attenzione all’inconscio, alfabetizzare le emozioni che non devono più essere percepite come qualcosa di altro da sé.
Serve costruire una pelle che non funga più da corazza per il diverso, ma che sia l’evidenziazione della complessità nelle relazioni, muovendosi per toccare l’altro e non per ferirlo. Per conoscerlo e non per deriderlo. E soprattutto per non supplire, come servi che non sanno quale sia la faccia del loro padrone, sotto il dominio inconsapevole delle emozioni senza nome.
Solo così, facendoci carico delle nostre emozioni senza annullarle o accentuarle, diventando “pedagogisti di noi stessi”, sarà possibile uscire dal loop che pare inceppato del giornalismo gossippovoro dell’oggi, di questo nostro io costretto a viaggiare avvolto nel voyeurismo digitale.
Axel Sintoni