Dopo mesi di trattative il braccio di ferro tra Twitter ed il proprietario di Tesla Elon Musk è arrivato ad un epilogo: il social network, dalla sera del 28 ottobre, ha un nuovo proprietario.
La vicenda in breve
La disputa tra Elon Musk e Twitter inizia nel gennaio 2022 con l’acquisto di un numero consistente di azioni da parte del proprietario di Tesla, tanto che in marzo ne possiede il 5%). Dopo pochi mesi, in aprile, Twitter decide di aprire un tavolo di trattativa per il passaggio di proprietà del network. Si vede un momento di tensione nell’ottobre 2022, quando Musk sembra volersi tirare indietro visto il problema dei numerosi account fake (la cui stima si aggira tra il 9% e 15% degli account totali) e la loro gestione. Twitter decide così di fare causa al potenziale acquirente per inadempienza di obblighi contrattuali. La conclusione dell’accordo avviene infatti nel mezzo del processo presso un tribunale del Delaware (USA).
I primi passi di Musk
L’annuncio della conclusa transizione viene dato da Elon Musk stesso con il tweet “L’uccellino è libero” , poco prima di mettere in atto misure che forse erano facilmente presagibili.
La prima decisione è stata infatti il licenziamento di quattro top manager, tra cui Vijaya Gadde, l’avvocata responsabile dell’oscuramento del profilo di Donald Trump in seguito all’assalto di Capitol Hill (6 gennaio 2021). La stessa sorte sembra inoltre toccare al 75% dei dipendenti attuali (5.500 lavoratori su 7.500), secondo quanto dichiarato dallo stesso Musk al Washington Post.
La seconda misura che ora ci si aspetta dal nuovo CEO, nel caso in cui dovesse rispettare ciò detto prima della transizione, è un allentamento delle politiche di moderazione dei contenuti: Twitter – sempre secondo Musk − ha bisogno di una “trasformazione”. La prospettiva di modifica delle limitazioni sulla parola è istanza che richiama simpatie da parte di figure sicuramente problematiche. In primis lo stesso Trump (sospeso la notte tra l’8 e il 9 gennaio 2021), fino a Dmitrij Medvedev, vicesegretario del Consiglio di sicurezza russo, il quale si augura un abbandono della “dittatura ideologica” con la nuova proprietà.
Quando la libertà di parola diventa libertà d’odio?
Sebbene le voci sull’ammorbidimento della policy sulla libertà di parola non sono state ancora confermate da fatti, sorge una questione che spesso ci si pone rispetto al “free speech”: quando quella che si considera libertà di parola finisce per diventare libertà di insultare e odiare? Quanto è breve il passo tra “free speech” ed “hate speech”?
I problemi rispetto ai discorsi d’odio sono stati una costante anche nell’amministrazione precedente del social.
Il progetto Contro l’odio, ad esempio, proposto di Acmos e finanziato dal Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, ha analizzato i tweet pubblicati tra il 1° ottobre 2018 e il 30 settembre 2019, rilevando come il 17,6% dei contenuti pubblicati sulla piattaforma può essere considerata una forma di hate speech. Sono numeri preoccupanti, dato che 2 tweet su 10 sono da considerarsi forme di incitamento all’odio. Questi veicolano molto spesso un messaggio aggressivo (se non violento) e tendono a colpire categorie considerate vulnerabili: rom, minoranze etniche e religiose, stando alle statistiche dello studio. Davanti a numeri sconcertanti ci si chiede come sia possibile che la piattaforma permetta violazioni spesso palesi.
È possibile riconoscere tutti i discorsi d’odio?
Qui subentra un secondo punto problematico: non esiste un metodo universale, un algoritmo capace di individuare e segnalare i tweet, e in generale i post, che sono a tutti gli effetti espressioni di hate speech.
Esiste un documento, il Code of Conduct on Countering Illegal hate speech online, firmato nel 2016 anche dal team di Twitter, che propone un impegno comune per il riconoscimento e la cancellazione di contenuti d’odio. L’adozione di questo codice di condotta ha portato a risultati incoraggianti, secondo il quinto rapporto della Commissione Europea sui discorsi d’odio, ma non debella il problema in maniera completa. Secondo Vera Gheno, sociolinguista e accademica, la difficoltà sta infatti nella fluidità del linguaggio, nella continua evoluzione della lingua che rende impossibile l’individuazione di pattern costanti.
Un secondo motivo che aumenta la produzione di hate speech potrebbe essere l’incoscienza di molti utenti rispetto alla possibilità di essere penalmente perseguiti per un contenuto d’odio online.
Un unico garante per tutti?
Per tornare alla questione della libertà di parola legata a Elon Musk e Twitter, non bisognerebbe precipitarsi in una condanna a priori. Sarebbe infatti errato affermare che l’allentamento della policy sulla libertà d’espressione debba necessariamente portare ad un aumento dell’hate speech.
La questione si pone, però, nel momento in cui misure dure (come quella applicata a Trump) non vengono applicate nemmeno davanti a casi egualmente – se non più – gravi. Si pensi ad esempio al silenzio intorno alla non-censura su Facebook di contenuti che esplicitamente sostenevano il genocidio dei musulmani Rohingya in Birmania, iniziato nel 2012. Il colosso di Zuckerberg ha infatti ammesso di non aver utilizzato tutte le risorse necessarie per eliminare l’hate speech dilagato contro la minoranza. Questi ha sicuramente influito anche sui “comportamenti offline”.
Chi dovrebbe essere poi il garante di questa libertà? Se la risposta è “il nuovo CEO di Twitter”, allora sorge un secondo interrogativo, forse più sottile ma altrettanto importante.
Le decisioni di un singolo possono garantire una maggior libertà di parola a tutte le parti in campo?