Il Tribunale di San Salvador lo scorso 12 dicembre ha confermato una sentenza di trent’anni di carcere per Teodora del Carmen Vásquez, una donna che ha avuto un aborto spontaneo dieci anni fa e che da allora si trova reclusa in prigione.
Il caso di Vásquez risale al 14 luglio 2007 quando, mentre lavorava in una scuola di San Salvador, ha avuto un’emergenza ostetrica al nono mese di gravidanza: la donna, sentendosi male, ha chiamato il servizio di emergenza dal bagno della scuola, senza però ottenere risposta, ed ha avuto una grave emorragia che le ha causato un aborto spontaneo e quindi la morte del figlio.
Un altro dipendente della scuola ha localizzato la donna e il bambino morto ed ha avvertito la polizia che pattugliava l’area: Teodora è stata arrestata mentre era ancora in stato d’incoscienza nel bagno.
Dopo aver ascoltato tre medici, la corte salvadoregna ha ritenuto che non vi fossero irregolarità nelle prove forensi presentate dall’Ufficio del Procuratore, come sostenuto dalla difesa, e che Teodora del Carmen Vásquez era responsabile della morte del suo bambino, confermando quindi la condanna a trenta anni per omicidio aggravato.
La condanna è stata duramente criticata da organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, che l’ha definita:
“Una profonda tragedia“.
A novembre, le Nazioni Unite avevano chiesto alle autorità dei El Salvador di esaminare i casi di donne che scontano condanne lunghe per presunto aborto.
El Salvador ha una delle leggi sull’aborto più restrittive al mondo: dal 20 aprile del 1998 l’articolo 133 del codice penale salvadoregno stabilisce una condanna da due a otto anni per l’aborto, anche quando la gravidanza è il risultato di stupro o incesto e quando la vita o la salute della puerpera o del bambino sono a rischio.
Inoltre i pubblici ministeri e i giudici classificano spesso i casi di aborto (volontario o spontaneo) come omicidio aggravato, un reato punibile con una pena da trenta a cinquanta anni di carcere.
E questo è stato esattamente lo scenario che ha fatto condannare non solo Teodora, ma lo scorso luglio anche Evelyn Beatriz Hernández Cruz, diciannovenne, che dovrà scontare trent’anni di prigione per aver avuto un aborto spontaneo dopo essere stata violentata.
Secondo la Corte di giustizia della città di Cojutepeque, Hernández, rimasta incinta dopo uno stupro di gruppo, avrebbe assassinato il figlio appena nato dopo averlo “gettato” in una latrina pochi minuti dopo il parto; la ragazza invece ha affermato di non essersi resa conto della gravidanza e di aver perso il feto spontaneamente al settimo mese di gestazione.
L’unica eccezione alla regola è avvenuta il 3 giugno 2013: grazie all’intervento della Corte Interamericana dei Diritti Umani, lo stato di El Salvador autorizzò un cesareo anticipato a Beatriz, una giovane donna affetta da Lupus, il cui bambino le stava crescendo dentro privo di cervello.
Secondo l’organizzazione locale Citizen Group per la depenalizzazione dell’aborto, attualmente circa ventisette donne scontano condanne da sei a trentacinque anni per il reato di omicidio aggravato legato all’aborto.
Sono quasi tutte donne povere che, a causa di emergenze ostetriche, hanno cercato assistenza negli ospedali pubblici che le hanno in seguito denunciate.
Il Parlamento europeo, riunito in sessione plenaria a Strasburgo giovedì scorso, ha ritenuto che il divieto generale di aborto sia paragonabile alla tortura.
Rammaricandosi del fatto che il corpo delle donne sia un campo di battaglia ideologico, il Parlamento Europeo ha chiesto il rilascio delle donne che sono in prigione in El Salvador per aborto, in particolare dei casi Vásquez e Hernández.
Fadua Al Fagoush