L’effetto inaspettato di Moody’s ha costretto ad una riqualificazione del grado di affidabilità del mercato italiano: lo Spread BTp-Bund è in calo del 2,5% e scende a 173 punti nonostante alcuni colossi abbiano staccato la cedola. Il governo Meloni annuncia privatizzazioni per 20 miliardi fino al 2026
Che l’ambito della finanza fosse assolutamente imprevedibile e, talvolta, spiazzante, l’abbiamo imparato con gli anni, ma che potesse addirittura essere benevolo lo apprendiamo solo oggi: dopo la scelta a sorpresa da parte di Moody’s di migliorare il suo range di affidabilità, lo stato italiano ha visto calare il proprio spread a 173 punti e ha proceduto alla messa in vendita di circa 315 milioni di azioni di Mps ottenendo un controvalore positivo complessivo pari a circa 920 milioni di euro.
I giornali inneggiano già alla grande intuizione di Giorgetti, ministro dell’Economia e delle Finanze, in particolare sottolineando quanto la strategia di privatizzazione, presentata lo scorso ottobre, abbia già determinato il palese aumento d’appeal della banca guidata da Luigi Lovaglio, ma controllata dallo Stato italiano da ben sei anni, dopo la ricapitalizzazione precauzionale del 2017 costata oltre 5,4 miliardi di euro.
Secondo gli ultimi dati, Via XX Settembre ha realizzato con successo la cessione del 25% di Monte dei Paschi: il corrispettivo per azione è pari a 2,92 euro per un positivo complessivo pari a circa 920 milioni di euro, che poi rappresenterebbe l’incasso del Tesoro, ora azionista di controllo con il 39%.
La manovra economica perseguita da Giorgetti ha due obiettivi principali: il primo è quello di sostenere la manovra economica attuale, che continua a poggiare in maniera ancora troppo gravosa sul deficit, mentre il secondo è rappresentato dalla scadenza del termine per un primo disimpegno del Tesoro da Siena, pattuito con Bruxelles due anni fa.
Lo svincolo dal pubblico è visto di buon occhio dall’Unione Europea, eppure lo stivale scalcia al solo risuonare della parola ‘privatizzazione’ dopo le negative esperienze precedenti.
Negli anni ’90, infatti, le privatizzazioni furono rese necessarie dal doppio indebitamento dei gruppi pubblici, da una parte, e dello Stato, dall’altra: l’Iri da sola aveva un passivo di 370 miliardi.
Le vendite di alcune società statali consentirono un incasso di circa 200 miliardi di euro in 15 anni: vennero privatizzate tutte le aziende statali nel settore dell’acciaio e in quello alimentare e si ridusse drasticamente il controllo nei settori strategici quali quello dell’elettricità, delle telecomunicazioni, del petrolio, dei prodotti chimici e dei trasporti.
Negli anni ‘92 e ‘93 i governi Amato e Ciampi dotarono le future dismissioni di un coerente impianto normativo, rinnovando anche i modelli di governance e rendendoli più adatti alla concorrenza globale che già incalzava, permettendo al successivo triennio prodiano di segnare 9,3 miliardi di dismissioni, e, l’anno successivo, la cifra record di 19,6 miliardi.
Nel ‘98 il bottino ammontava a 48,4 miliardi di euro: il Tesoro cedette quote importanti di Eni e Bnl, per un ammontare di 10,3 miliardi. L’Iri incassò circa due miliardi e il gruppo Eni chiuse il capitolo dismissioni con un introito di 5,68 miliardi.
Il nuovo millennio si aprì con il governo Berlusconi: nonostante il mercato fosse meno favorevole alle vendite, nel 2001 la strategia economica del Cavaliere proseguì con quote di Snam e Bnl, e nel 2002 con Asm Brescia e Fiera di Milano e ancora Telecom.
Nel 2003 si realizzò la cessione dell’Ente Tabacchi Italiano, tre tranche di Enel e così via.
Nel 2004 Tremonti, allora Ministro dell’Economia e Finanze, venne più volte accusato di aver fatto maquillage in due occasioni: in seguito allo spostamento di alcune quote dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti, il cui 30% fu poi spostato nelle casse delle Fondazioni, e, dall’altra, di aver avviato il grande piano di dismissioni del patrimonio immobiliare.
Il ritorno di Romano Prodi al governo nel 2006 sembrava sancire l’allineamento tra le due strategie economiche, quella nazionale e quella europea, volte alla privatizzazione; ma le aspettative non vennero soddisfatte.
Dopo il rallentamento imposto dal ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa Schioppa, il quale frenò sia sulla cessione di quote di Eni e Enel sotto il 31%, che sulla vendita di Alitalia, il successivo triennio berlusconiano, quello culminato con lo spread a 551, si caratterizzò, in particolare, per il ‘piano antiscalata’ di Tremonti, che qualcuno ancor oggi interpreta come il tentativo di costituire una nuova Iri.
Sarà solo Mario Monti, incalzato fin da subito dal rischio di default, a realizzare cessioni per 10 miliardi nel 2013, cedendo a Cdp Sace, Fintecna e e Simest e concedendo un vago barlume di speranza alla strategia di privatizzazione a breve termine.
Ancora più complessa fu l’esperienza del Ministro dell’Economia e delle Finanze del Conte I, Giovanni Tria, che, nonostante il prospetto di un incasso pari a 18 miliardi in un solo anno solare, raggiunse un risultato prossimo allo zero.
Dopo la costituzione di un ibrido governo giallo-rosso, e dopo la fumata nera del tentativo di vendere Mps, finalmente il governo Conte poté ascrivere se stesso all’albo degli effettivi, abbozzando l’operazione di riacquisto di Autostrade, perfezionato, però, solo successivamente sotto il governo Draghi.
L’annuncio di privatizzazioni per 20 miliardi fino al 2026, contenuto nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef) del governo Meloni presentata oggi 23 novembre, costringe, dunque, a degli interrogativi. Il primo è tecnico: è possibile raggiungere una cifra simile sia pure nell’arco di tre anni? L’ombra dell’esperienza Tria sembra soccombere sull’Italia ancora una volta, anche perché, e passiamo al secondo interrogativo, non è stato ancora presentato alcun elemento per poter intendere quali quote verranno messe sul mercato azionario.
Quali quote verranno cedute in una situazione di mercato come quello attuale? E soprattutto, quali saranno quelle a cui il governo acconsentirà la vendita?
Luigi Di Vito