Gli effetti psicologici della migrazione: ecco perché dovremmo occuparcene

In Italia si riaccende il dibattito sull’immigrazione. Grande assente, ancora una volta, il tema della salute mentale. Eppure è una problematica che ci riguarda tutti: vediamo perché.

La storia della specie umana è stata caratterizzata fin dai suoi albori da spostamenti di popolazioni, piuttosto che da un attaccamento spasmodico a un ambiente specifico. Nonostante le apparenze, quindi, gli effetti psicologici della migrazione non sono necessariamente negativi. E infatti, fino a qualche decennio fa, il tasso di ricoveri psichiatrici degli immigrati in Italia era più basso rispetto a quello della popolazione autoctona.

Negli ultimi vent’anni la situazione è purtroppo cambiata.

I cambiamenti sociopolitici che hanno interessato vaste aree del pianeta hanno provocato un incremento della cosiddetta migrazione forzata. Non si parte più per cercare nuove opportunità, si fugge per salvare la pelle. Molti immigrati che approdano oggi in Italia sono veri e propri profughi, che hanno vissuto esperienze fortemente traumatiche sia in patria, sia durante il viaggio migratorio. Esperienze che noi a malapena riusciamo a immaginare, e che molto spesso hanno serie ripercussioni sulla psiche dell’individuo. Tra queste, la più diffusa sembra essere il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), che può associarsi ad altre patologie quali disturbi d’ansia, disturbi affettivi, disturbi depressivi, disturbi di personalità.

Gli effetti psicologici della migrazione sembrano essere un aspetto del tutto trascurato nel dibattito italiano sul tema dell’accoglienza. Parlando di immigrati, tendiamo a scordarci del vissuto traumatico che li accompagna, e delle conseguenze concrete che questo può comportare. Come se il disagio mentale fosse una prerogativa di noi occidentali, e il problema dei richiedenti asilo si risolvesse unicamente dando loro un tetto sopra la testa e del cibo nel piatto.

La salute mentale dovrebbe invece essere un tema centrale.

Immaginiamo un uomo sottoposto a prigionia e tortura nel Paese di origine, e/o durante il lungo viaggio che lo ha portato in Europa. Ora questo individuo, magari per motivi del tutto innocui, si trova a doversi relazionare con le forze dell’ordine italiane. Questa eventualità potrebbe scatenare in lui reazioni aggressive. Cosa penserà l’opinione pubblica?

Molti lo etichetteranno semplicemente come un criminale. Altri magari scuoteranno la testa e, con fare paternalistico, concluderanno che questi stranieri provengono da contesti meno civilizzati del nostro, e non sono abituati a rispettare le regole. Qualcuno forse lo difenderà tirando in ballo la situazione di precarietà economica e sociale di molti immigrati, che giustificherebbe comportamenti di natura antisociale, in nome della sopravvivenza.

Dovremmo invece chiederci cosa possa significare, per un uomo che ha trascorso mesi, o anni, nelle mani di aguzzini in divisa, che lo sottoponevano alle peggiori torture, trovarsi di fronte ad altri individui in divisa, come i membri delle nostre forze dell’ordine. Un particolare che ricorda il trauma subito può infatti innescare un senso di minaccia e di conseguenza un comportamento aggressivo da parte della persona affetta da PTSD. Non è cattiveria, non è un limite culturale: è un meccanismo psichico su cui l’individuo ha ben poco controllo, come descritto ampiamente in diversi casi clinici.

Cosa può fare allora il sistema di accoglienza italiano?

Bisogna tener presente che l’esperienza traumatica non necessariamente comporta l’insorgere della PTSD: su questo influiscono, oltre a caratteristiche personali del soggetto, anche le nuove esperienze a cui va incontro nel Paese di arrivo. Un individuo chiuso in un centro di accoglienza insieme a innumerevoli sconosciuti, in condizioni di inattività forzata, reciso dal proprio contesto culturale e con il terrore che la sua richiesta di asilo venga respinta, può avvertire un tale senso di pericolo e di prigionia, da riattivare i vissuti traumatici esperiti in passato.

Questo significa che non solo i traumi pregressi, ma anche le Post Migration Living Difficulties (PMLD; difficoltà di vita in terra di immigrazione) sarebbero in grado di influire sugli effetti psicologici della migrazione. Si tratta in realtà di un dato incoraggiante: prestando maggiore attenzione all’attività di supporto psicologico in seno al sistema di accoglienza, si potrebbe scongiurare l’insorgenza di queste patologie.  E se siete tra quelle persone che si chiedono “chi ce lo fa fare”, oltre a un buon esame di coscienza, consiglierei anche di considerare i guadagni sul lungo termine di questo approccio.

Guadagni in termini economici, se si pensa alle ripercussioni somatiche associate al PTSD, che ovviamente pesano sul Sistema Sanitario Nazionale (soprattutto se, in mancanza di una diagnosi psicologica corretta, vengono trattate in modo non consono). Non solo: guadagni in termini di sicurezza e ordine pubblico, visto che, come già accennato, nel quadro clinico del PTSD possono rientrare anche scoppi d’ira e aggressività; per non parlare poi dell’abuso di sostanze, altra terribile conseguenza del disturbo.

Meno male, direte voi, che la sicurezza degli italiani stia così tanto a cuore agli esponenti politici che hanno calcato la scena negli ultimi anni.

E invece, sorpresa: al posto che progredire, il nostro Paese fa passi indietro.

In un rapporto pubblicato nel 2015 Medici Senza Frontiere denunciava la condizione di inadeguatezza del nostro sistema di accoglienza in merito alla presa in carico psicologica, soprattutto per quanto riguardava i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria). Risultava invece migliore la situazione del sistema SPRAR (Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), che garantiva ai propri ospiti percorsi concreti di inserimento sociale e lavorativo, nonché una buona assistenza sanitaria. Ricerche successive hanno sottolineato ulteriormente le difficoltà riscontrate dai servizi sanitari italiani, per carenza di risorse e di personale specializzato nel lavoro con un’utenza così specifica, contraddistinta da condizioni di vulnerabilità estrema, e spesso penalizzata dalla  barriera culturale e linguistica.

L’introduzione nel 2018 del famigerato decreto sicurezza ha creato nuove difficoltà.

Cancellando la protezione umanitaria e depotenziando il sistema SPRAR, il decreto ha di fatto creato nuove masse di irregolari, esclusi da qualsiasi tutela sanitaria, e per di più destinati a nuove esperienze di marginalità potenzialmente deleterie per la loro salute psicofisica.

Durissima la reazione dell’AIP (Associazione Italiana di Psicologia). Nel denunciare in un comunicato i rischi che questa decisione politica avrebbe comportato, l’associazione si è peraltro soffermata anche su un altro aspetto, spesso trascurato, del rapporto tra immigrazione e salute mentale: gli effetti psicologici della migrazione sulla popolazione autoctona. Sembrerebbe infatti che una certa propaganda politica anti-immigrazione abbia avuto delle serie ripercussioni anche sulla salute mentale dei cittadini italiani. Il senso di minaccia costante, la “nemicalizzazione” dell’altro (in questo caso l’immigrato), la prevalenza della reazione emotiva rispetto a quella razionale, causerebbero a detta degli esperti un’erosione progressiva del tessuto sociale, e addirittura potrebbero concorrere allo sviluppo di orientamenti autoritari, pericolosi per la nostra democrazia.

Il nuovo Governo è ora chiamato a intervenire sui decreti sicurezza: sarebbe auspicabile che, nella rielaborazione complessiva della materia, la problematica psicosociale non venisse nuovamente dimenticata.

Elena Brizio

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