Il governo dell’Ecuador ha deciso di abbandonare il progetto di costruzione di un nuovo carcere nella città di Archidona, situata nella regione amazzonica, in seguito a dodici giorni di intense proteste da parte delle comunità indigene locali. La notizia rappresenta una vittoria significativa per gli abitanti dell’area, che hanno manifestato con determinazione contro un’iniziativa percepita come una minaccia al loro ambiente e alla loro identità culturale. Il governo ha annunciato che il centro penitenziario sarà realizzato altrove, precisamente nella città di Salinas, sulla costa del Paese.
In Ecuador, le comunità indigene dell’Amazzonia hanno giocato un ruolo chiave nel bloccare la costruzione di una mega prigione. Attraverso manifestazioni, blocchi stradali e altre forme di protesta, hanno espresso il loro rifiuto di ospitare una struttura penitenziaria in una regione ricca di biodiversità e di grande valore ecologico.
Gli abitanti hanno sottolineato come la costruzione del carcere avrebbe avuto un impatto devastante sull’ambiente (l’Amazzonia è uno dei territori più sensibili del pianeta), compromettendo le risorse naturali che costituiscono la base della loro sussistenza e minacciando gli equilibri culturali e sociali delle comunità indigene.
Le rivendicazioni delle comunità sono state sostenute anche da organizzazioni ambientaliste e gruppi per i diritti umani, che hanno amplificato la loro voce a livello nazionale e internazionale. La pressione esercitata è stata determinante per costringere il governo a riconsiderare il progetto.
Dopo giorni di confronto e tensioni crescenti, il governo ha deciso di rinunciare al progetto proposto dal Presidente Daniel Noboa, riconoscendo così la legittimità delle preoccupazioni sollevate dalle comunità locali.
La decisione di trasferire la prigione nella città costiera di Salinas è stata presentata come una soluzione volta a evitare ulteriori conflitti e a garantire una maggiore sostenibilità. Secondo le autorità, Salinas offre condizioni logistiche e ambientali più favorevoli per ospitare un centro penitenziario di questa portata.
Il governo ha anche ribadito l’importanza di rispettare le comunità indigene e di adottare un approccio inclusivo nello sviluppo di progetti infrastrutturali. Tuttavia, l’episodio ha messo in luce le difficoltà del governo nel bilanciare le esigenze dello sviluppo economico con la tutela dei diritti delle popolazioni indigene e la protezione dell’ambiente.
Le mega-carceri come contrasto alla crescente criminalità e al narcotraffico
Il progetto, da molti comparato al “modello Bukele” di El Salvador, costerà 52 milioni di dollari e sarà seguito dalla società spagnola Puentes y Calzadas Infraestructuras S.L.
Infatti, la sicurezza carceraria è diventata una delle principali preoccupazioni del governo di Daniel Noboa, che ha recentemente avviato un ambizioso piano di riforma. Inizialmente, l’idea era di creare prigioni galleggianti nel Pacifico, lontano dalle comunità ma è stata accantonata a favore di un piano più incisivo.
Lo scopo è quello di creare una soluzione permanente per affrontare la crescente violenza legata alle bande criminali: sebbene il Paese sia stato storicamente considerato una delle nazioni più sicure dell’America Latina, negli ultimi decenni ha visto un aumento preoccupante della violenza, specialmente in relazione al narcotraffico e alla criminalità organizzata. La geografia strategica dell’Ecuador ha reso il Paese un punto di transito per il traffico di cocaina, contribuendo a un incremento dei crimini legati alla droga.
I gruppi criminali, spesso legati a cartelli colombiani e messicani, sono coinvolti in attività come il traffico di droga, l’estorsione, i rapimenti e l’assalto a mano armata. Inoltre, i tassi di omicidio sono aumentati vertiginosamente e sono proprio le carceri ad essere luoghi di scontro, tra massacri e altri atti di brutalità difficili da contenere.
La proposta di costruire mega-prigioni o strutture di massima sicurezza è volta proprio a isolare i capi delle bande, un’azione accolta con molto entusiasmo dal governo ma con forti resistenze da parte della popolazione, in quanto nel caso di Archidona oltre al fattore ambientale si sommerebbero le preoccupazioni per la vicinanza della prigione a scuole, cliniche e attività commerciali.
Il governatore Gary Rivadeneyra ha cercato di rassicurare l’opinione pubblica affermando che la nuova struttura avrà una capacità di 800 detenuti e non di 1.000, come temuto dai manifestanti. Inoltre, ha escluso l’idea che i prigionieri più violenti siano destinati a questa prigione ma ha comunque sostenuto che le proteste contro il progetto abbiano un forte “tono politico” e siano dunque parte di una strategia per screditare l’amministrazione in carica.
Nel frattempo, il penitenziario già esistente ad Archidona ha visto un significativo aumento della sua popolazione carceraria: inizialmente concepito per accogliere circa 300 detenuti, oggi il centro è sovraffollato con circa 521 prigionieri, creando condizioni di vita difficili e problematiche di gestione.
La “bella Archidona”
Nel cuore della città di Archidona, da settimane un gruppo di manifestanti ha eretto tende di plastica, cercando rifugio dal caldo torrido e dalla pioggia incessante. Sui teli si leggono cartelli che denunciano il progetto di costruzione del carcere, con il chiaro messaggio: “No al carcere di Archidona”.
La città, che conta circa 8.000 abitanti, è situata lungo il fiume Napo, una delle principali vie d’acqua che sfocia nell’Amazzonia ed è rinomata per la sua bellezza naturale e il suo patrimonio culturale.
I residenti, molti dei quali appartengono alla comunità Kichwa e vivono di agricoltura e turismo ecologico, si sostentano grazie alle ricchezze naturali della regione e proprio per questo si sono opposti alla costruzione del mega-carcere. Ma non si tratta solo di questo: tutta la regione circostante è ricca di grotte e caverne, considerate luoghi sacri per le popolazioni locali che vi celebrano rituali ancestrali.
Anche il leader del Geoparco Napo Sumaco, Daniel Jaque, ha espresso la sua contrarietà al progetto, mostrando chiaramente come prima della pandemia Archidona era conosciuta per i tassi di criminalità più bassi, una situazione che è peggiorata con l’incremento dell’estrazione mineraria illegale e il piano di costruzione della prigione.
La scelta di non costruire il carcere ad Archidona è stata accolta con sollievo dagli abitanti della regione amazzonica: ora la città può tornare a concentrarsi sul proprio sviluppo sostenibile, puntando su settori come il turismo ecologico e la valorizzazione delle culture indigene.
E ora?
La scelta di Salinas come nuova sede per il centro penitenziario porta con sé comunque notevoli interrogativi: anche se situata in una zona urbanizzata con infrastrutture più sviluppate (e dunque in grado di assorbire meglio l’impatto della costruzione e della gestione di un carcere) è probabile che anche in questa località il progetto incontri resistenze, soprattutto da parte di chi teme che una struttura penitenziaria possa compromettere il turismo, il quale costituisce uno dei principali settori economici della zona.
Le autorità dovranno lavorare per garantire che il progetto venga realizzato in modo trasparente e con il coinvolgimento delle comunità locali, evitando errori simili a quelli commessi nel caso di Archidona: la gestione delle relazioni con la popolazione sarà cruciale per assicurare il successo del progetto e per evitare nuove proteste.
Questa vicenda ha dimostrato come le comunità locali possono influenzare le decisioni governative quando agiscono con unità e determinazione, grazie a una mobilitazione efficace. Allo stesso tempo, si evidenzia la necessità di un dialogo più aperto e inclusivo tra gli apparati statali e le comunità indigene, le cui istanze sono ancora troppo spesso ignorate.