L’ecofemminismo è alla base della lotta contro il cambiamento climatico, perché la relazione tra essere umano e ambiente non è indifferente alle disuguaglianze di genere.
Le costruzioni culturali dei ruoli di genere di uomini e donne comportano differenti rischi e rendono queste ultime più colpite dai disastri ambientali e dalle conseguenze dei cambiamenti climatici.
Ne consegue che questi debbano essere a tutti gli effetti da considerare un problema di genere, poiché nel contesto in cui i loro diritti e la loro situazione socio-economica sono diseguali rispetto a quelli degli uomini, le donne ne sono più colpite a causa di fattori sociali, economici e culturali.
Questa storica diseguaglianza nei confronti delle donne è alla base della loro capacità di adattamento – adaptation capacity – e vulnerabilità che, come documentato da diversi studi, non è intrinseca all’essere donna, ma socialmente costruita. Queste sono figlie di politiche irresponsabili su tutti i livelli di governo, non attente ad annose dinamiche di genere, e il risultato di sistemi socio-economici di impronta capitalista fortemente distorti a beneficio di giochi di profitto, potere e prestigio.
L’ecofemminismo è una corrente del femminismo di cui si parla poco, perché ormai inglobata in quello che oggi viene definito femminismo intersezionale, movimento sociale che supporta la parità sociale, economica e politica di tutte le persone, indipendentemente da sesso, genere, razza, religione, e secondo cui più lotte debbano andare di pari passo. È un movimento che si prefigge d’evidenziare l’esistenza di un terreno comune tra ambientalismo, animalismo e femminismo.
Il termine è stato coniato solo nel 1974 dalla femminista e attivista Françoise d’Eaubonne nel suo libro “Le féminisme ou la mort”, in cui per la prima volta teorizzò che distruzione ambientale e giustizia sociale avessero cause in comune. L’autrice venne così a delineare l’analogia tra “corpo” femminile, soggiogato e dominato dalla struttura patriarcale, e “natura”, soggetta allo stesso giogo di dominio dallo sfruttamento capitalista.
La teoria ecofemminista sostiene perciò che ci sia una stretta correlazione tra il dominio dell’uomo sulla natura e il suo degrado e lo sfruttamento e l’oppressione delle donne. Secondo una visione meccanicista e riduzionista del mondo, la società è filtrata attraverso dualismi: alcuni esempi sono le coppie spirito e materia, mente e corpo, maschile e femminile, razza umana e mondo animale, bianco e nero, e così via.
L’oppressione deriva da questa suddivisione, perché in ogni binomio vi è una delle due parti che opprime o tende a essere considerata superiore rispetto all’altra. Al contrario, la visione ecologica dovrebbe puntare sulla circolarità: non a caso ad oggi si parla di economia circolare, modello di produzione e consumo che si possa rigenerare da solo garantendo dunque anche la sua ecosostenibilità.
Nel libro “Ecofeminism“, manifesto del pensiero ecofemminista realizzato a quattro mani da Maria Mies e Vandana Shiva, le due autrici suggeriscono la necessità di costruire una nuova cosmologia e antropologia olistica attraverso due parole chiave: vita e libertà. La vita nella natura è mantenuta da cooperazione, mutua assistenza e amore reciproco. Solo così è possibile rispettare e preservare la diversità di ogni forma di vita, e le varie espressioni culturali. La libertà è intesa come libertà all’interno dei limiti della natura, conservandola e rispettandola, consumando solo ciò di cui si ha realmente bisogno.
L’ecofemminismo pone al centro della sua attenzione il concetto di cura e “manutenzione” del mondo, cioè il prestare attenzione fuori e dentro di noi, al “bene comune” della terra: cura nei confronti delle persone, del nostro corpo come primo ambiente nel quale – e col quale – ci troviamo a vivere, del corpo delle altre persone ma anche la cura dell’ecosistema.
Nel corso di tutta la storia dell’umanità, le donne, grazie alla loro profonda conoscenza delle tecniche per preservarle, sono state detentrici di saperi e abilità relative alla gestione delle risorse naturali, e hanno saputo creare opportunità economiche e di miglioramento sociale per intere comunità.
Se da un lato è opportuno constatare la maggiore incidenza dei cambiamenti climatici e i conseguenti effetti negativi principalmente sulle donne, dall’altro lato risulta riduttivo schiacciare la dimensione femminile nella sola categoria di “vittime dei cambiamenti climatici”, riducendo il loro ruolo a sole spettatrici passive di questi.
Pertanto, si rende necessario ristabilire il loro giusto spazio e giusto peso nel ruolo di agenti promotrici attive ed efficaci di adattamento e risposta ai cambiamenti climatici, affinché si possa riflettere sull’importanza di definire l’emergenza ambientale anche una vera e propria questione femminista.