Ebola, tutte le facce dell’epidemia

Ogni Paese ha una sua forma di saluto. Quello della Liberia, per esempio, è lo snap handshake. Dopo essersi stretti la mano le persone lasciano la presa e schioccano le dita. Un modo convenzionale di salutarsi che nel tempo è diventato tipico di tutta l’Africa Occidentale. Eppure, nel 2014, qualcosa non è andata per il verso giusto e di certo, chi si incontrava nei luoghi pubblici ha dovuto fare a meno di salutarsi toccandosi. Perché a partire da quell’anno e per i due successivi, in quella parte di mondo tanto ampia da comprendere Guinea, Liberia e Sierra Leone un mostro è arrivato inaspettatamente, decidendo di devastare l’intera zona. Ebola. Si tratta della più grande epidemia di questo virus mai registrata, con 28.616 persone infettate e 11.310 morti. Una malattia che oggi, dopo essercela quasi dimenticati, è tornata alla ribalta a causa dell’epidemia nella Repubblica Democratica del Congo. Ebola è la “malattia degli intoccabili” e per questo motivo il tipico saluto africano è stato messo al bando per qualche anno.

Questa è una patologia che nasce nelle foreste e si trasmette tramite contatto diretto, cioè attraverso fluidi corporei come lacrime, sangue o sudore. Ebola ha un serbatoio animale, soprattutto pipistrelli e roditori.

“Quando l’uomo va nella foresta tropicale e viene a contatto con un animale infetto avviene il contagio”, spiega il dottor Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità. “I sintomi – continua Rezza – sono la febbre molto alta, problemi gastrointestinali ed eventuali emorragie. L’isolamento serve per arginare il contagio, per prevenire altri casi. C’è da considerare, inoltre, che Ebola è una patologia altamente letale anche in Paesi industrializzati. In Africa, dunque, si assiste a una vera e propria emergenza”.

Questo virus ha fatto la sua comparsa nel 1976, in due zone dell’Africa sub-sahariana. I dipendenti di un cotonificio, infatti, accusarono i primi sintomi della malattia dopo aver mangiato dei pipistrelli arrostiti. Non si sapeva ancora come avvenisse il contagio e perciò furono infettate quasi 300 persone e più della metà morì. Nel frattempo, a pochi chilometri di distanza da questo primo focolaio ne scoppiò un altro nel villaggio di Yambuku e in pochissimi giorni morirono quasi 300 abitanti. Il nome a questa malattia, molto simile al Marburg, venne dato dal virologo Karl Johnson che in quel periodo si trovava nella zona colpita. Ebola era infatti il nome di un fiume locale. 

Negli anni la zona della Repubblica Democratica del Congo è stata colpita diverse volte da questo virus. La malattia è stata però sempre limitata ai piccoli villaggi, con un inizio e una fine ben circoscritta. Ad oggi il genere Ebolavirus conta cinque specie accertate. L’ultima è stata scoperta la scorsa estate e porta il nome di Bombali virus (BOMV), dopo che alcuni frammenti di RNA virale sono stati trovati in due specie di pipistrelli frugivori della Sierra Leone. Questi animali, come viene spiegato in uno studio pubblicato su Nature, sono stati trovati appollaiati dentro le case, indicando un alto potenziale per la trasmissione umana.

Quello che però è accaduto nell’Africa Occidentale ha sconvolto il mondo intero. Perché dalle foreste la malattia è arrivata per la prima volta nelle grandi città, in zone molto popolate. E l’epidemia, è bene sottolinearlo, si muove con la gente. In questo angolo di Africa, massacrato da guerre, miseria, corruzione e ignoranza, con sistemi sanitari ridotti ai minimi termini, «i filamenti di Ebola – come viene raccontato nel libro Zona Rossa di Gino Strada e Roberto Satolli – non hanno trovato ostacoli alla possibilità di moltiplicarsi ciecamente per mesi. Sono usciti dalla foresta dove stavano rinchiusi in qualche ospite animale trovando per caso l’occasione di fare il salto in un corpo umano, verso la fine del 2013 al confine tra Guinea, Liberia e Sierra Leone».

Si pensa che il “malato zero” sia stato Emile Ouamouno, un bambino di due anni che viveva nel villaggio di Meliandou. In quel luogo ci sono diverse piantagioni da cui si ricava l’olio di palma e secondo i ricercatori questi alberi avrebbero attirato negli anni grandi quantità di pipistrelli della frutta che si insediano e nidificano all’interno del tronco. Il bambino stava probabilmente giocando vicino ai rami oppure si pensa che abbia toccato un avanzo di cibo morsicato dagli animali. Da lui sono state contagiate e sono morte la madre, la sorella di tre anni e la nonna.

La zona non era mai stata colpita da Ebola e per questo motivo nessuno sapeva come muoversi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di emergenza solamente nel marzo 2014 ma nel frattempo la malattia ha iniziato a espandersi arrivando fino alla capitale Conakry, dove vivono più di un milione e mezzo di abitanti. A luglio dello stesso anno è arrivata una massiccia risposta internazionale da parte di OMS, Croce Rossa, Medici Senza Frontiere ed Emergency. È iniziata così la cosiddetta no touch mission. Come ha spiegato Valerio La Martire nel suo libro Intoccabili, «basta il primo gesto, ossia la mancata stretta di mano con un altro operatore, a fargli capire che sarà difficile combattere contro l’istinto naturale che porta le persone a mettersi in contatto le une con le altre». Gesti naturali ma potenzialmente letali se nel mezzo c’è l’Ebola.

La mobilitazione, anche da parte della comunità, è stata alta. Davanti a qualsiasi luogo pubblico, come per esempio i supermercati, c’era una guardia che misurava la temperatura con un termometro “a pistola” e faceva lavare le mani in un lavacro divenuto un oggetto simbolo di Ebola. Si tratta di un trespolo con due ripiani. Su quello superiore c’è un secchio di plastica da cui esce un rubinetto che manda acqua e candeggina con cui ci si lava le mani. L’acqua confluisce poi nel ripiano più basso. Con la febbre non si entrava al supermercato a fare la spesa. «Precarie e abborracciate – si legge in Zona Rossa – queste strutture rappresentano bene la qualità improvvisata di risposta a Ebola» ma anche, probabilmente, la volontà di fare qualcosa e non abbandonarsi a un atteggiamento fatalista.

Ebola, in quei due anni maledetti, ha distrutto ogni cosa. Perfino i rapporti personali. Sicuramente la causa è stata la paura del contatto tra le persone, il timore di considerarsi malati e quindi, untori. Per diversi mesi le scuole sono state chiuse, gli ospedali al collasso, le chiese e le moschee, che venivano frequentate senza troppe distinzioni di credo, sono rimaste per moltissimo tempo deserte. Prendersi cura dei propri figli, dormire con il proprio compagno o seppellire un parente poteva diventare una condanna a morte. Proprio i funerali sono stati considerati il luogo principale in cui poteva avvenire il contagio. Questi riti prevedono il lavaggio del defunto, l’unzione e la vestizione della salma. Questo comporta, ovviamente, un’elevata possibilità di contatto con sangue e fluidi corporei contenenti il virus e la grande partecipazione a questi eventi poteva scaturire altri focolai della malattia.

Ebola e gli stupri

In quegli anni, a causa di questi fattori che hanno comportato un periodo di quarantena per evitare di venire a contatto con il virus, in Africa occidentale si è sviluppata un’altra epidemia. Sono stati infatti registrati tantissimi casi di stupri, violenze nei confronti di giovani donne e aggressioni sessuali. Uno studio condotto da Unicef insieme alle ONG Plan International, Save the children e World Vision, ha evidenziato come il numero di gravidanze tra le adolescenti sia quasi raddoppiato nelle regioni colpite dall’Ebola.

Ben 617 ragazze, secondo alcune interviste fatte in Sierra Leone da Save the children, hanno denunciato aggressioni e stupri, la maggior parte avvenuta durante la quarantena. Durante il periodo clou dell’epidemia, infatti, le scuole e i bar erano chiusi, le partite di calcio annullate e le strade deserte fungevano da ambiente ideale per i predatori sessuali. C’è anche da considerare che molte ragazze erano rimaste orfane a causa di Ebola rimanendo così sole, senza protezione dei genitori. Un’altra ricerca pubblicata dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ha sottolineato ancora una volta come in alcune regioni della Sierra Leone le gravidanze in età adolescenziale siano aumentate del 65%.

Due epidemie, una sociale e l’altra letale sanitaria. Due strade che in un modo o nell’altro hanno creato distruzione, paura e orrore. Elementi che ricorrono nella testimonianza di Chiara Burzio, coordinatore medico di Medici Senza Frontiere nel 2014/2015.

“Quel viaggio – racconta – è stato il mio primo approccio con Ebola, quindi emozionalmente più forte. Sono stata due volte, la prima in Liberia nel periodo clou dell’epidemia mentre la seconda volta in Guinea dove ho fatto la chiusura. A Monrovia avevamo tantissimi pazienti al giorno, molti dei quali erano positivi al virus. In quel mese ho visto davvero tanti decessi. In Guinea, invece, ho vissuto emozioni contrastanti. L’ultima paziente era una piccola bimba nata nel nostro centro da una mamma malata. Eppure questa bambina è stata la prima neonata al mondo con Ebola sopravvissuta. L’abbiamo considerata una parte gioiosa perché chiudevamo un’epidemia di due anni con una nascita, quasi come per chiudere un cerchio”.

Nei due anni di continui focolai in Africa occidentale Ebola ha causato tantissimi morti ma c’è anche chi è sopravvissuto. Soprattutto grazie agli Ebola fighters, così come li ha definiti la rivista americana Times scegliendo come Person of the Year 2014 coloro che hanno lottato contro il virus. Medici, infermieri e volontari che “hanno corso rischi e salvato vite”. Anche a costo di ammalarsi, così come successo a Fabrizio Pulvirenti, il medico siciliano di Emergency che ha contratto la malattia nel centro di Lakka e che è sopravvissuto dopo le cure all’Ospedale Spallanzani di Roma. Lui non si reputa un eroe, ma neanche un untore. Semplicemente un «soldato che si è ferito facendo il suo dovere». L’epidemia in Africa è stata definita conclusa all’inizio del 2015, quando i casi sono diminuiti fino quasi ad azzerarsi.

Ebola oggi

Ebola però è tornata. Ancora una volta nella Repubblica Democratica del Congo, ormai giunta alla sua decima epidemia. La dottoressa Chiara Burzio è partita nuovamente. In una zona, però, dove la malattia non è sotto controllo. Da agosto 2018 i casi accertati o sospetti sono 1.396 mentre i morti sono saliti a 900, come reso noto dal Dipartimento della Sanità. Il contesto, in questo caso, fa la differenza perché ci troviamo in una zona di guerra. Il virus ha raggiunto anche qui le grandi città e a causa della guerra non è facile raggiungere le popolazioni.

“Dopo 8 mesi di epidemia – dice la dottoressa Burzio – ci si accorge che dobbiamo cambiare la via di come combatterla. In Africa occidentale c’erano molti centri perché la popolazione poteva richiedere questo, mentre qui dobbiamo avere un approccio più comunitario. Dobbiamo cercare di andare incontro alle esigenze delle comunità che ha paura di entrare in un centro specializzato o magari vive in luoghi distanti”.

Come ha dichiarato in un comunicato ufficiale la dottoressa Joanne Liu, presidente internazionale di Medici senza frontiere, ci si trova di fronte a una contraddizione sorprendente perché «da una parte c’è una tempestiva e ampia risposta con nuovi strumenti medici come vaccini e trattamenti che mostrano risultati promettenti a chi arriva in tempo. Dall’altra ci sono persone che muoiono di Ebola nelle loro comunità e non si fidano abbastanza da farsi avanti per ricevere le cure».

Un altro fattore da considerare, inoltre, sono gli attacchi armati contro i centri di cura della malattia. Queste aggressioni sono cominciate a febbraio, intensificandosi tra marzo e aprile. L’Organizzazione mondiale della sanità ha sospeso così temporaneamente le attività di sostegno alle comunità locali a Butembo. Gli uomini armati accusano gli operatori sanitati di aver portato Ebola in Congo. Poche settimane fa un epidemiologo del Camerun, Richard Valery Mouzoko Kiboung, è stato ucciso a Butembo. Poche ore dopo, un altro gruppo armato di machete ha appiccato il fuoco in un centro di cura dell’Ebola nella vicina cittadina di Katwa.

Il contrasto tra la situazione belligerante che compromette le cure e il fatto che esse siano portate avanti con farmaci sperimentali è straziante.

“Ci sono i vaccini – spiega la dottoressa Burzio – e i farmaci che c’erano nel 2014 non erano così avanzati nella ricerca. Qui si potrebbe avanzare con la sperimentazione giorno dopo giorno con farmaci che possono essere testati su pazienti malati. Non si sa quale di queste molecole funzioni meglio ma è escluso qualsiasi danno e siamo certi che non si va incontro a nessuna pericolosità”.

Il lavoro stesso dei medici è particolare. La paura rende vigili e questo è lo spirito con il quale costoro raggiungono le zone interessate. Le procedure da seguire prima di entrare nella cosiddetta “zona rossa”, cioè dove ci sono i malati di Ebola, sono molto strette. Bisogna fare molta attenzione, perché anche il contatto con il proprio corpo, come un semplice strofinarsi gli occhi, può diventare pericoloso. Anche il modo di curare i pazienti è differente rispetto alla prassi solita. Qui si visita solo con uno sguardo e il corpo del malato si può toccare solo dopo essersi isolati in una tuta protettiva completamente sigillata.

Ci vuole inoltre molto coraggio, soprattutto in questa parte del mondo che è sconvolta oltre che da Ebola, anche dalla guerra. Tanti sono guariti ma tantissime sono le persone che non ce l’hanno fatta. Eppure, davanti a queste tragedie, solo una cosa è certa. Tutti siamo uguali: bianchi, neri, poveri e ricchi. L’emergenza, anche questa volta come accaduto già nell’Africa occidentale, non è quella dei bambini che hanno visto morire uno a uno i membri della famiglia o che si vedono circondati da strani marziani infagottati in tute che non permettono una carezza. La vera emergenza, come raccontano Gino Strada e Roberto Satolli, è quella segnata dai risultati di quelle analisi, da quel prelievo, che decide se diventi intoccabile o se puoi tornare a casa. Un risultato decisivo, come un «implacabile Minosse dantesco che “giudica e manda” all’interno della zona rossa. E alla sua uscita».

Enrica Iacono

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