In quella striscia di terra che chiamano “Terrasanta”, escalation di scambi di fuoco tra Israele e la Striscia di Gaza.
Forse, in mezzo ai titoli e ai servizi di questi giorni, qualcuno è riuscito a sapere che il giogo israeliano in Palestina ha di nuovo provocato un attacco sgangherato di Hamas a base di razzi sparati a casaccio e facilmente neutralizzati da Israele che a sua volta ha risposto con due precisissimi missili lanciati contro il centro di Gaza City.
Lo so, ormai non importa più un accidente a nessuno di ciò che accade da quelle parti. Eppure anche lì c’è un invasore e un invaso, un oppressore e un oppresso, una nazione forte che calpesta con disinvoltura un centinaio di risoluzioni di condanna dell’ONU e tutti i trattati esistenti che si è ben guardata di sottoscrivere.
Nessuna sanzione, nessun embargo, neppure l’invio di un fuciletto a pallini alle vittime dell’invasione, nessun fronte diplomatico che ristabilisca diritti essenziali come la disponibilità di acqua e di energia, il diritto alla pesca e all’autodifesa, neppure quello di accogliere i profughi che desiderano rientrare in patria.
Per il mondo libero e democratico la Palestina semplicemente non esiste, eppure sarebbe un ottimo esempio per prefigurare ciò che accadrà se l’Ucraina fosse davvero occupata dalla Russia. Nazisti o democratici non importa, dovrebbe bastarci sapere che i missili di ieri su Gaza sono soltanto l’ultimo piccolo episodio di una guerra scoppiata il 5 giugno del 1967 e ufficialmente conclusasi il 10 giugno, conosciuta appunto come la Guerra dei Sei Giorni.
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In guerra non vince il più buono, il più giusto o il più democratico. In guerra vince il più forte ma neppure il più forte può dire che la guerra è finita fino a quando non è finita davvero.
Se tanto mi da tanto, i nostri figli e nipoti potranno leggere di missili su Kiev almeno fino al 2077.