L’imbarazzo terminologico
Nei cinque mesi di conflitto arabo-israeliano abbiamo assistito a una vera e propria spaccatura del dibattito pubblico non solo dal punto di vista politico, ma anche concettuale. Se il crescendo della violenza con cui Israele ha condotto la sua controffensiva ha portato molte persone a riconsiderare il supporto alla sua causa, si continua ad avere difficoltà o resistenze nel nominare adeguatamente tale massacro. Tuttavia, la questione non è solo terminologica. È importante definirlo genocidio palestinese, poiché le parole che utilizziamo sono il primo passo per una comprensione di quanto accade.
Le difficoltà da parte di molte persone derivano dall’imbarazzo di volgere un’accusa simile a un Paese il cui popolo è stato la vittima principale del genocidio per antonomasia: la Shoah. Anche durante la giornata della memoria, su molti quotidiani si leggevano rimproveri a chi osava accostare i due drammi, malgrado l’intenzione non fosse quella di paragonarli, bensì di rievocare il ricordo degli orrori per riesumare quel “mai più” pronunciato l’indomani della fine dei campi di sterminio.
Occorre quindi fare chiarezza per comprendere perché è importante definirlo genocidio palestinese e perché i richiami alla Shoah abbiano un fondamento.
Perché è importante definirlo genocidio palestinese
In un articolo del Domani del 13 Febbraio, lo storico Daniele Susini argomenta contro la tesi del genocidio, affermando che le dichiarazioni e le azioni del governo israeliano siano “esclusivamente” politiche. Pertanto, le accuse di genocidio sarebbero infondate e mancherebbero l’obiettivo. Fallisco nel comprendere cosa significhi “esclusivamente politico” in un contesto simile, visto che il massacro di più di 20mila individui (tra cui bambini), a mio modo di vedere ha numerose implicazioni etiche, morali, giuridiche, e non può essere considerato come se fosse una campagna elettorale.
Quanto Netanyahu e il governo israeliano stanno perpetrando ai danni della popolazione di Gaza trova pieno riscontro nelle parole disumanizzanti che abbiamo ascoltato in questi mesi. L’obiettivo non è solo occupare il territorio. Affermare esplicitamente la ricerca di una “vittoria totale” sul nemico, e che la sicurezza non sarà ottenuta fino a che “non ci saranno più nemici in medio-oriente” implica cancellare chiunque si considera una minaccia.
I bombardamenti a tappeto israeliani che hanno ucciso migliaia di civili non sono eventi casuali. I cecchini che colpiscono indiscriminatamente qualsiasi individuo passi nel loro mirino nemmeno. La popolazione di Gaza si è spostata a Rafah, nel Sud della striscia al confine con l’Egitto, dove lo stesso governo israeliano gli aveva ordinato di andare, eppure nemmeno adesso i bombardamenti gli concedono la tregua. Affamati, assetati, feriti, i palestinesi combattono ogni giorno la battaglia per la sopravvivenza.
Inoltre, la mole di bombe sganciate sul territorio ha creato un ulteriore problema: infatti, numerose testate sono rimaste inesplose. Ciò significa che gli abitanti non potrebbero tornare nelle proprie case nemmeno se i bombardamenti terminassero, per il rischio di detonare accidentalmente gli ordigni.
Nella Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio del 1948 al terzo punto figura «il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale» come uno degli aspetti imputabili per il riconoscimento dello stesso.
Per riconoscere la portata delle azioni del governo israeliano, non basta ricondurle sotto il termine-ombrello dei crimini di guerra, come consiglia Daniele Susini. Dunque, è importante definirlo genocidio palestinese per restituire in maniera accurata la sofferenza e l’orrore che Netanyahu e il governo israeliano amministrano quotidianamente ai danni di una popolazione sull’orlo di un abisso.
La duplice valenza della Shoah
Se le resistenze terminologiche appaiono immotivate, risulta ben più comprensibile la difficoltà nell’accettare i paragoni con la Shoah. Daniele Susini nel suo articolo evidenzia con precisione i motivi storici per cui lo sterminio ebraico nella seconda guerra mondiale sia un unicum. Durante il nazismo, il genocidio divenne vera e propria pratica di Stato. Mai era accaduto che un Paese organizzasse un apparato burocratico rivolto specificamente all’eliminazione totale di un popolo.
I campi di sterminio sono una delle pagine più nere della storia umana. Un sistema in cui le persone venivano spogliate della loro dignità, e vivevano in condizioni così aspre da essere private perfino della voglia di vivere. Come la figura del “musulmano” di Primo Levi, l’individuo non esisteva più se non nella sua sola dimensione biologica. Gusci vuoti, che trascinavano i piedi calzati con zoccoli di legno attraverso le baracche, immersi nella neve, alla ricerca di una buccia di patata da mangiare.
Nella sua valenza storica la Shoah costituisce un caso unico e – quantomeno abbiamo la speranza – irripetibile. Ma proprio l’orrore di questo evento gli ha conferito un’ulteriore – e a dir poco paradossale – valenza concettuale. Quanto accaduto nei campi di sterminio costituì lo scandalo etico che mise in serio dubbio la possibilità di un “dopo” della riflessione filosofica o artistica. Come si poteva parlare di giusto e sbagliato dopo quanto era accaduto? Qualsiasi discorso, imperativo morale, regola, poesia… qualsiasi tentativo di elaborazione sembrava un insulto a chi non aveva potuto trovare riposo nemmeno nella morte, cancellato nei forni crematori.
Ma proprio il fatto che era accaduto, imponeva di prendere delle misure per impedire che si ripetesse. Quel “mai più” pronunciato da chi era sopravvissuto, chiedeva di andare oltre l’impossibilità di comprendere. Giorgio Agamben in “Quel che resta di Auschwitz” (1998) affronta proprio questa problematica. Attraverso la voce della testimonianza di chi aveva visitato l’inferno dei campi di sterminio, si poteva far rivivere coloro le cui grida si persero nel fumo dei comignoli, o nel silenzio delle camere a gas. Cercare, in qualche modo, di dargli almeno un’ombra di giustizia.
La testimonianza riuscì nell’infausto compito di dare valenza universale alla ferita particolare del popolo ebraico. Tutti noi, ebrei e non, avremmo dovuto lavorare nel nostro piccolo per impedire che quanto si era consumato nei campi di sterminio non si ripetesse mai più. La violenza commessa sul popolo ebraico fu, allo stesso tempo, una violenza su tutto il genere umano.
Per questo motivo, quando ci si riferisce alla Shoah, non si intende fare un paragone tra i metodi di attuazione dello sterminio, quanto piuttosto rievocare l’unico imperativo etico che poteva scaturire da quella violenza. Nell’essere umano che è obbligato a chinare il capo di fronte alla sofferenza, quando nessuna mano mostra pietà, rivivono trasfigurate le voci di chi lo ha preceduto nel silenzio. E se ci appare scandaloso un richiamo simile, è solo perché in noi si risveglia la vergogna di rendere ancora possibili certi orrori.
«Se essi intendono dire che Auschwitz fu un evento unico, di fronte al quale il testimone deve in qualche modo sottoporre ogni sua parola alla prova di un’impossibilità di dire, allora essi hanno ragione. Ma se, coniugando unicità e indicibilità, fanno di Auschwitz una realtà assolutamente separata dal linguaggio, se recidono, nel musulmano, la relazione fra impossibilità e possibilità di dire che costituisce la testimonianza, allora essi ripetono inconsapevolmente il gesto dei nazisti, sono segretamente solidali dell’“arcanum imperii”.»
– Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz