È giusto essere licenziati per un post pubblicato sui social?

I social sono sempre stati delle vere e proprie “piazze“, dove è possibile incontrare persone, fare amicizia condividere idee con chiunque. A partire dalla nascita delle prime piattaforme (“Linkedin” nel 2003 e “Facebook” nel 2004), questi siti hanno del tutto rivoluzionato la nostra quotidianità, divenendo (purtroppo/per fortuna), parte integrante delle nostre vite. In questo lento sincretismo tra vita reale e virtuale insorgono numerosi dubbi e diverbi. Infatti ciò che un utente scrive su Facebook “rimane” su Facebook? Nel caso di un post offensivo o diffamatorio l’utente dovrebbe essere perseguito?

 

Tommaso Casalini vs. Greta Thunberg

Tommaso Casalini è il vice allenatore della squadra giovanile del “Grosseto Calcio”. Ebbene, qualche mese fa, pubblica sulla sua bacheca di Facebook un post in cui insulta l’attivista per l’ambiente Greta Thunberg con pesanti offese sessiste. Immediatamente il post desta scandalo tra gli internauti e viene subito condiviso in modo virale, facendo scaturire innumerevoli risposte di sdegno. La reazione è stata immediata: il club “Grosseto Calcio” pubblica ufficialmente il licenziamento del vice-allenatore per:

comportamento non consono alla linea tracciata dalla società che punta sui valori morali prima ancora che su valori tecnici

In un secondo momento anche la risposta di Tommaso Casalini si fa avanti mondo del web, in cui si scusa per le impresentabili parole scritte nei confronti di Greta Thunberg.

 

Pittore o imbianchino?

In quest’altro caso, la “vittima” è un pittore stimato e rinomato, che riceve un incarico di consulenza in un piccolo comune italiano. La notizia dell’incarico ricevuto si sparge sui social, fino a giungere all’ex sindaco del paese, il quale si rivolge all’artista definendolo un “imbianchino agorafobico” e un “ritrattista rionale“. Il post ebbe le conseguenze più nefaste: infatti l’ex sindaco venne condannato, sia in sede civile che penale.

In sede penale è stato condannato per diffamazione e il “focus” dell’accusa era sulla parola “agorafobico”, dato che il pittore sfortunatamente ne soffre; la corte civile, invece, analizzando il grado di offesa delle frasi, ha ritenuto di maggior gravità la parola “imbianchino” per il suo utilizzo dispregiativo. La disputa si è conclusa con il pagamento dell’ex sindaco di una multa di 3 mila euro all’artista.




Dipendente vs. azienda

Il terzo esempio risale al 2012, avvenuto nel forlivese: una dipendente scrisse un post su Facebook nel quale insultava la propria azienda. La definì «un posto di m. », descrivendo, in seguito a dei cambiamenti interni, i malfunzionamenti dell’azienda, insultando addirittura il personale. Prevedile la reazione dell’azienda che, oltre a querelarla per diffamazione, la lincenziò a fine mese: inutile il tentativo da parte della dipendente di cancellare il post pubblicato sui social.

 

È giusto perdere il lavoro per un post su Facebook?

Di fronte a questi esempi è lecito chiedersi se sia giusto perdere il lavoro per un post pubblicato sui social. Attualmente tale dinamica risulta avere pochi precedenti, essendo i social una realtà ancora nuova: come giustamente osserva Virginia Mantouvalou, professoressa di diritti umani e del lavoro dell’ University College di Londra. All’interno di una sua relazione ella nota una poca familiarità dei tribunali nell’affrontare dispute di tale genere; inoltre, secondo la professoressa, i licenziamenti in seguito ai post pubblicati non sempre dovrebbero essere resi possibili. Il rischio è che si intacchi la libertà di espressione del dipendente, censurata dal datore di lavoro.

I datori di lavoro non dovrebbero avere il diritto di censurare le opinioni e le preferenze morali, politiche e di altro genere dei loro dipendenti anche se causano danni agli affari

Da una parte è giusto che il datore di lavoro non abbia uno sguardo censorio nei confronti del suo dipendente: se questo vuole esprimere un malcontento personale lo può fare, ma senza intaccare gli altri. Precisazioni ulteriori andrebbero fatte per coloro che ricoprono cariche pubbliche o per coloro che li insultano.

Perciò come è giusto agire? I diversi esempi qui illustrati mostrano la chiara differenza tra avere un’idea, un pensiero e decidere di renderla pubblica, condividerla con gli altri: è un atto che implica una responsabilità, che può creare accordo o contrasto. È ingenuo pensare che serbare un pensiero nella propria mente sia come scriverlo sui social (o parlarne faccia a faccia). È la lenta deriva dell’io che fa spazio all’ego.

 

 

Jacopo Senni

 

 

 

 

 

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