È giusto condividere il dolore sui social?

dolore sui social

Cosa spinge le persone a usare i social network come necrologi?


La mia mamma si è spenta adesso“, con queste parole lancia un tweet una signora sconosciuta ma presente nelle notifiche; questo accade perché le notifiche del social network spesso riguardano anche persone che non conosciamo direttamente ma vengono notificate solo perché collegate a persone di nostra conoscenza ovvero follower.




Un giro di parole per dire una cosa semplice: quando condividiamo il dolore sui social media scriviamo a una platea di persone per lo più sconosciuta. Il popolo a cui ci rivolgiamo è indistinto, molto differenziato in termini di età, genere e classe sociale. Ma soprattutto estraneo. Ora, alla luce di ciò, la frase sulla dipartita della madre, a pochi secondi dal fatto accaduto, fa riflettere e crea un certo disagio.
Da una parte c’è sicuramente il bisogno di condividere il dolore per alleviarlo, ma siamo sicuri che sia questo il luogo giusto per condividere un simile fatto personale?
Dall’altra emerge senza dubbio una voglia di protagonismo, anche inconscio, se pensiamo che venga utilizzato persino in questi frangenti.
La smania di volere un po’ di notorietà, a costo di strumentalizzare una morte o un ricovero ospedaliero, porta a condividere con il mondo un fatto personale: ma non cerchiamo comprensione, bensì solo approvazione. Si ottengono centinaia di like, ma quante di queste persone è sinceramente addolorato? Non solo. L’interesse ha una durata effimera, alimentato da pollici, faccine tristi e cuoricini, ma ben presto (una manciata di minuti) viene fagocitato da altri tweet più accattivanti o dal tema tendenza del giorno.
L’idea che consegnare queste foto e informazioni alla platea social rendano immortale la persona deceduta o tengano alta lo stato di attenzione è puramente illusorio. Il nostro dolore si perde in una marea di contenuti e diventa invisibile. Dimenticato. Come la propria sofferenza. E torna la solitudine. E allora a cosa è servito?

Vogliamo essere compatiti per alleviare il dolore, ma la compassione o ancor più l’empatia, la partecipazione emotiva, non esiste se non per coloro che si conoscono personalmente. Allora perché non comunicare tramite altri canali diretti (una banalissima telefonata), che certamente indirizzano il nostro dolore (e lo canalizzano) verso persone che possono capire il nostro stato emozionale e compatirci.
Gli psicologi dicono che:

“Quando il reale si sovrappone al virtuale spettacolarizzare qualsiasi atto diventa un bisogno”.

Prima dei social network, il dolore era “privato”, esclusivo, si condivideva con pochi intimi: una questione anche di rispetto nei confronti di chi non c’era più. Ora i social vengano usati come necrologi. Il dolore va esternato e chi non lo fa viene discriminato. Viviamo nella società del voyerismo, la condivisione è d’obbligo per non venire emarginati: ma il dolore collettivo è solo virtuale. “Il più solido piacere di questa vita, è il piacere vano delle illusioni”, diceva Giacomo Leopardi.

 Marta Fresolone

 

 

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