Dylan Dog reboot. In quanti hanno provato, a Capodanno, a fare bilanci sul passato stilando liste colme di buoni propositi per l’anno che verrà? Accade spesso, complice l’alcool, di sentirsi in vena di analisi e riflessioni su ciò che è stato e su ciò che vorremmo realizzare in futuro. È altrettanto facile, poi, una volta trascorsi i primi mesi dell’anno, ritrovarsi gli stessi di sempre – analoga routine, medesime angosce – e sentire un po’ la maledizione e un po’ il conforto dato dall’immutabilità delle cose.
A riuscire nel titanico intento di iniziare l’annata con una netta cesura rispetto al passato è stato l’indagatore dell’incubo, Dylan Dog. Per l’eroe del fumetto bonelliano, ideato da Tiziano Sclavi, è stata pianificata una “rinascita” proprio all’Alba (nera) di questo folle 2020. È in un’annata bisestile, che a lungo ricorderemo per i suoi drammatici eventi, che è stato inaugurato il Dylan Dog reboot.
Un reboot, in ambito letterario, è qualcosa di diverso da una “nuova edizione” o “riedizione” di un filone narrativo. Consiste nell’abbandono della continuity passata per ricreare da principio personaggi e trame attraverso una riscrittura parziale o totale degli episodi della saga. Operazione non nuova in America, dove diversi fumetti supereroistici hanno vissuto il loro “nuovo inizio”, è stata sperimentata anche in Italia con l’indagatore dell’incubo. A supervisionare la delicata transizione fra il Ciclo della Meteora e il Dylan Dog reboot è stato Roberto Recchioni, curatore di DYD dal 2013 e sceneggiatore dei primi sei numeri del fumetto nel nuovo anno.
Quella di Dylan Dog è una storia nata sotto l’astro del successo dal momento della sua creazione nel 1986. L’eco di consensi suscitata dal mensile sin dalle prime uscite lo consacrò da un lato come fenomeno pop, dall’altro rese subito chiaro che il generalizzato pregiudizio gravante sul mondo del fumetto non aveva modo di sussistere quando si parlava dell’opera di Sclavi.
“Posso leggere la Bibbia, Omero e Dylan Dog per giorni senza annoiarmi”. Questo ebbe modo di dichiarare Umberto Eco, sdoganando presso il mondo accademico il fumetto popolare. Era d’altra parte impossibile non notare come Dylan Dog si configurasse come opera postmoderna, come egregia rivisitazione del genere noir, e come fosse, in definitiva, lo specchio della società contemporanea: capace sì di sentimenti, ma anche costantemente preda di paure irrisolte.
Pensare a un Dylan Dog reboot significava ricostruire un dialogo con un’eredità del passato di questa importanza. Una sfida certamente impegnativa, ma tanto più necessaria quanto più è importante rispettare la natura di un’opera d’arte nata per essere autentica e, dunque, dirompente. Superato da poco il giro di boa delle pubblicazioni del 2020, si possono tirare delicatamente le somme di questa nuova direzione intrapresa.
Cappotto lungo e barba sono state le prime modifiche estetiche apportate al nuovo Dylan che, orfano ma adottato dall’ispettore Bloch, ha anche alle spalle un matrimonio e un divorzio con la affascinante Rania. Ad aprire la porta della sua casa, non più il sardonico Graucho ma un personaggio recuperato dalla narrativa sclaviana, lo scavafosse Gnaghi.
Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, qualcosa di blu.
Leggerne anche solo il nome, “Dylan Dog reboot”, sembrava qualcosa di mostruoso e terrificante. La meteora che aveva distrutto, alla fine del 2019, la scritta in copertina del logo “Dylan Dog” aveva dilaniato in mille pezzi anche il cuore di moltissimi fan, incerti sul futuro del loro (anti)eroe.
In realtà, per quanto l’esperimento sia molto moderno nella sua genesi, affonda le radici in pratiche letterarie antichissime. Nell’antica Grecia, i poeti alessandrini erano concordi nel ritenere gli autori antichi dei modelli insuperabili di eleganza stilistica. Eppure, per quanto fosse urgente la necessità di distinguersi da essi, il concetto di originalità era qualcosa di molto diverso da ciò che siamo abituati a intendere oggi. Il principio dell’imitatio cum variatione prevedeva la presenza costante di rimandi, citazioni, allusioni ai modelli del passato, dai quali venivano tratti anche temi ed espedienti formali.
Era stato lo stesso Apollo ad esortare Callimaco: “dove non passano i carri pesanti, là cammina. Che non dietro le impronte degli altri tu spinga il tuo occhio, né per la via larga, ma per sentieri non calpestati […]”. Eppure, l’autore è lo stesso che scriveva di non aver cantato nulla che non fosse già attestato da altri poeti.
Quella sorta di competizione, gara letteraria, che gli antichi affrontavano con i loro modelli ha qualcosa di simile alla moderna operazione del reboot. Ricominciare, recuperare i fili del passato di Dylan era necessario per vivificare un’esperienza letteraria destinata all’immortalità. È uno sforzo finalizzato affinché ciò che è stato classico, eterno, continui ad esserlo, senza invecchiare mai.
I vecchi casi dell’indagatore dell’incubo, riletti e reinterpretati in chiave contemporanea, hanno un’originalità e una freschezza che regala al lettore qualcosa di familiare accanto a elementi assolutamente sorprendenti. Dylan è certamente nuovo, cambiato per molti aspetti, ma è lo stesso old boy che ha conquistato chi lo ama da vecchia data. Fedele a se stesso, Dylan Dog non muta nell’essenza, e gli elementi di novità non sono che il pretesto per lasciare che il personaggio abbia la stessa forza che aveva al momento della sua nascita.
Si è giunti a un punto cruciale nel corso della storia di Dylan Dog che determina una svolta anche nel rapporto tra i lettori e il fumetto. Come se si trattasse di una vera e propria storia d’amore, dopo un lungo fidanzamento si approda a una nuova ridefinizione della relazione. E come in ogni matrimonio che rispetti la tradizione, c’è sempre il vecchio Dylan, e poi anche qualcosa di nuovo. E quel “qualcosa di blu” è l’elemento turchino , magico, che, come nelle favole, conquista anche chi scetticamente giura ogni mese a se stesso che il successivo sarà “l’ultimo numero di Dylan che comprerò”.
Martina Dalessandro