La vita è quello che ti succede mentre collezioni relazioni, posti di lavoro e case differenti. John Lennon ci perdonerà se prendiamo in prestito parte delle sue parole per descrivere la storia della protagonista senza nome del romanzo di esordio di Silvia Noli; alla quale presta la penna per prendersi un lungo break, sospeso tra realtà e finzione, per guardare indietro alla sua vita alla ricerca di un po’ di equilibrio.
Così questa ragazza di riviera ci usa come spettatori inermi e avidi del suo peregrinare tra i ricordi, mentre cerca di trovare il punto preciso dove possa incontrare sé stessa. La sua storia inizia rabbiosa, triste: una storia di violenza e di sofferenza per una bambina nata da due genitori assolutamente inadatti allo scopo; ma poi, pagina dopo pagina, la rabbia scompare per lasciare il posto ad un racconto nudo, oggettivo, talvolta persino autoironico. Questo romanzo di Silvia Noli è un percorso psicoterapico a cui assistiamo sospendendo il giudizio, divorando ogni assurda situazione che vi troviamo raccontata.
Questa ragazza così comune, nel modo di sentire gli eventi della vita, di pancia, senza troppe riflessioni, ci regala una storia di vita stra-ordinaria che però, in un certo senso, è quella di ognuna di noi. La comprendiamo mentre, spinta dalla necessità di trovare lavoro, si lancia in esperienze fallimentari, finendo talvolta vittima di truffe o del lato viscido e oscuro della manodopera femminile: che sia venditrice di pesce surgelato, promoter in fatiscenti villaggi turistici o massaggiatrice in bagni turchi, non c’è niente che non si riveli per quello che è e non la costringa ad andarsene, lasciandola di nuovo senza il becco di un quattrino ma un pochino più scaltra della volta precedente. Nuovo giro, altra corsa. Allo stesso modo si cambia di casa, di quartiere, di coinquilini: alcuni validi, altri meno; scoprendo che la nobiltà non è spesso di casa laddove potremmo immaginare che sia, all’apparenza. Ma soprattutto sono le vicende sentimentali che ci strappano il sorriso più grande, amaro ma sentito: siamo noi e la nostra adolescenza sfortunata ad inseguire il bello del paese, che è tutta scena e reati; il narcisista che ci vuole magre ma ci trova tanto dolci; l’amore estivo che a contratto con il quotidiano diventa inadeguato e via di delusioni.
Quello che Adelante ci insegna, però, è che tutti abbiamo bisogno di guardare alla nostra vita con un po’ di disincanto: le persone soffrono, (quasi) tutte, e la nostra sofferenza non ci rende speciali. Questo non vuol dire che dobbiamo sminuirci o nasconderla ma non possiamo vivere la nostra vita infarcendola di rabbia e di vittimismo costante; mitizzando noi e il nostro dolore non produrremmo nulla di buono, soprattutto per noi stesse. Adelante ci fa sentire meno sole, più comprese, e allo stesso tempo ci pizzica laddove non vorremmo; ci spinge a spronarci, a svegliarci, ad imparare dagli errori passati: e così quando l’ennesimo uomo o l’ultimo posto di lavoro palesemente inadeguato ci viene snocciolato davanti agli occhi, proviamo un moto incredulità per la protagonista così ingenua e vorremmo urlarle “come fai a non renderti conto e a non scappare a gambe levate?” ma poi ci viene in mente che lei lo sa, lo sa eccome, eppure non riesce a fermarsi di fronte alla tragedia imminente, alla nuova sofferenza certa, incapace di spezzare la parabola autodistruttiva. E ci scopriamo a somigliarle più di quanto non vorremmo, consce che anche la nostra storia prosegue senza battute d’arresto, con tutto ciò che di positivo e negativo portiamo con noi, non voltandoci mai indietro, se non per dare una sbirciatina per poi tornare a guardare in avanti.
Adelante, appunto.
Alice Porta