Sara Hejazi, nata a Mashad, antropologa e giornalista, ci parla della questione femminile e delle donne iraniane. Il tema, particolarmente complesso, richiede al lettore lo sforzo di immedesimarsi in una cultura diversa dalla nostra, tenendo a mente il retroscena geopolitico che riguarda il Paese.
L’Iran ha avuto una storia monarchica millenaria, l’ultima dinastia Pahlavi iniziò un’opera di modernizzazione del Paese di stampo occidentale. La Rivoluzione Bianca portò dei benefici alle donne, in termini di diritti e di libertà, ma non tutte accolsero positivamente questo programma di riforme. Perché?
La Rivoluzione Bianca dello scià portò alcuni benefici ma non raggiunse la società intera. Per quale motivo? Per il semplice fatto che le innovazioni che arrivano dall’alto, quelle culturali, economiche, legali, quasi sempre si sviluppano a macchia di leopardo.
Pensiamo per esempio a Teheran, che proprio negli anni antecedenti la Rivoluzione Bianca subì un processo di urbanizzazione fortissima. Tante persone dalle aree rurali iniziarono a spostarsi verso le aree urbane. Dalla fusione tra questo processo e la Rivoluzione Bianca nacque una nuova classe sociale, la famosa borghesia urbana. Le aree di confine, rimanendone escluse, continuarono a mantenere le proprie caratteristiche culturali, linguistiche e religiose.
Inevitabilmente, il processo di nazionalizzazione dell’Iran iniziato con Reza Shah Pahlavi, andò a toccare specifiche classi sociali e specifici luoghi geografici. Stentando a raggiungere l’intero Paese, coinvolse solamente quella classe sociale già istruita e pronta a gettare il seme per una riflessione sui diritti e sul cambiamento.
La rivoluzione islamica guidata da Khomeini sfociò nella proclamazione della Repubblica Islamica nel 1979. In un certo senso venne ripristinata la società antecedente alle riforme. In che modo cambiò il ruolo della donna da quel momento in poi?
Secondo me non venne ripristinato alcun ruolo delle donne antecedente alle riforme. Questo è un errore che si fa spesso, ed è dovuto alla mal rappresentazione della rivoluzione islamica nei libri di storia occidentali. Complice anche la narrazione di tutte le voci iraniane emigrate soprattutto negli Stati Uniti dopo la Rivoluzione e appartenenti all’elite iraniana ai tempi dello scià (Shāh). In realtà la storia non torna mai indietro, piuttosto è trasformazione continua. Di fatto la rivoluzione, che poi è diventata islamica, ha portato delle grandi innovazioni soprattutto per le donne.
Shirin Ebadi, nel libro “Il mio Iran“, lo racconta in prima persona. Lei, un’avvocatessa appartenente ad una nota famiglia aristocratica iraniana, dopo la rivoluzione non può più praticare la sua professione. La Rivoluzione iraniana, come la Rivoluzione d’ottobre russa o come quella francese, ha infatti letteralmente rovesciato la piramide sociale. E questo ribaltamento coinvolse tutte le donne, che sotto l’egemonia dello scià avrebbero potuto ambire al massimo al ruolo di domestiche o di terze o quarte mogli. Grazie alla Rivoluzione uomini e donne ridotti ai margini della povertà ebbero l’occasione di cambiare la propria posizione sociale.
Bisogna aggiungere che il cambiamento del ’78 fu il risultato di un processo che era iniziato prima, negli anni ’60. Durante quel periodo si diffuse un nuovo modello di donna musulmana.
Khomeini, che in quegli anni era in esilio in Francia, teorizzò uno stato utopico basato su di un Islam ideale, dove le donne assunsero un ruolo imprescindibile. L’esaltazione della donna derivò, in realtà, dall’influenza del filosofo Ali Shariati. Quest’ultimo, nell’opera “Fatemeh is Fatemeh“, ispirandosi alle donne del Profeta Maometto, delineò un modello di donna musulmana iper-moderna.Durante i giorni di tumulto della Rivoluzione del 1978, le donne utilizzarono anche il chador per manifestare contro lo scià. Questo simbolo era ancora più forte se consideriamo che decenni prima lo scià aveva proibito l’uso del chador per le strade perché lo considerava simbolo di arretratezza.
Qual è l’attuale lotta politica e sociale che le donne iraniane stanno combattendo?
La lotta attuale del delle donne iraniane è sicuramente il femminismo islamico. Un tema estremamente ampio.
Per comprenderlo non si deve guardare al femminismo occidentale ma si deve incorniciare il movimento all’interno dell’Islam stesso. Il femminismo islamico si pone come obiettivo la reinterpretazione del Corano e della Sunna ricercando una giustizia di genere direttamente all’interno dei testi sacri.
Affinché la sharia, ovvero la legge sacra basata sul Corano e sulla Sunna, possa restituire alle donne quei diritti che sono stati loro illegittimamente negati, è necessario che le donne stesse forniscano una nuova interpretazione esegetica.
La questione del velo spesso genera fraintendimenti, soprattutto in occidente. Per molte donne iraniane infatti, la costrizione del velo è una problematica minoritaria. Ma di cosa si tratta? È un semplice precetto religioso, un dettame islamico o un simbolo d’identità culturale? È giusto parlare di patriarcato e maschilismo sociale quando ci si riferisce al velo? Il rigidissimo codice di abbigliamento islamico, realmente, come viene percepito dalle donne iraniane?
Il velo è un elemento storico, un indumento che è sempre esistito in regioni geografiche diverse ed in contesti diversi.
Facciamo degli esempi pratici. Le patrizie romane non uscivano di casa senza il velo, la Madonna è sempre stata rappresentata velata, la sposa tradizionalmente indossa il velo. Dunque, esisteva prima dell’avvento dell’Islam. Veniva anche utilizzato per distinguere le donne appartenenti a classi sociali più elevate dalle schiave, alle quali era proibito velarsi.
Serviva a segnare una linea di demarcazione tra la sfera pubblica e privata. Fatima Mernissi in “Le harem politique” spiega molto bene il significato della parola hijab riprendendo un hadith riferito al banchetto nuziale che celebrava il matrimonio fra Maometto e Zaynab. Allah per separare il talamo, il letto nuziale, dagli invitati, fa calare dal soffitto una tenda. E questo è il senso intrinseco del velo. Soprattutto per le donne, indossarlo nel contesto pubblico, significa non rinunciare alla propria privacy.
Poi, negli anni ’60 effettivamente il velo è diventato un simbolo politico. E il chador iraniano lo è diventato ancor di più. Dall’attentato alle Torri Gemelle del 2001, indossare un velo è stata una scelta il più delle volte politica di tante seconde generazioni europee e statunitensi. In Europa si è tramutato in un simbolo di identità culturale, si pensi alla Germania. Seconde generazioni di donne turche che di colpo hanno iniziato ad indossare il velo, quasi rivendicando le proprie radici.
È bene ricordare che in Iran indossare il velo significava seguire quel modello femminile moderno a cui accennavamo poco fa. Un modello totalmente opposto a quello occidentale. Il femminismo occidentale infatti, veniva tacciato di essere un ulteriore strumento di potere in mano all’occidente. Un mezzo per sottomettere l’altro a livello culturale. Questo è il nodo. Ecco che stringersi attorno ai propri simboli culturali, ritornare alle proprie origini diviene, paradossalmente, un metodo di liberazione.
Per quanto mi riguarda, credo che il velo oggi sia l’ultimo problema delle donne iraniane. Il velo del 1978 non esiste più.
Il vero problema dell’Iran è il suo posizionamento nel mondo. Un problema squisitamente geopolitico. Finché questo Stato non uscirà dall’isolamento internazionale, dalla grande narrazione di “Stato canaglia”, neanche le donne usciranno dalla “prigione” iraniana. È impossibile aggirare le gravissime mancanze della sharia rispetto alla parità dei diritti fra uomini e donne se prima non si raggiungerà una vera autodeterminazione dello Stato. Ciò che intendo dire è che si dovrebbe concedere alla Repubblica Islamica, forse è più corretto chiamarla post-islamica, di maturare.
Che influenza ha avuto sulla società iraniana il caso di Nasrnin Sotoudeh, l’avvocatessa paladina dei diritti civili condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate per essersi opposta all’obbligo del velo e alla pena di morte?
C’è sempre una discrepanza tra l’indignazione occidentale e l’indignazione iraniana riguardo ai casi che hanno a che fare con l’Iran. Il motivo è legato anche all’informazione che riceve l’opinione pubblica iraniana.
Le notizie che vengono diffuse da Amnesty International o Human Rights Watch in Iran non ci sono. Quando si legge il giornale o si accende la televisione i titoli delle notizie sono molto diverse da quelli che abitualmente leggiamo sul The Guardian o sul Corriere della sera.
Dunque, non posso affermare che il caso di Nasrnin Sotoudeh abbia mosso l’opinione pubblica iraniana.
La mobilitazione senz’altro è avvenuta con l’uccisione del generale Soleimani, con l’abbattimento del volo di linea ucraino che ha portato l’Iran sull’orlo della terza guerra mondiale. Ovviamente mi sto riferendo a mobilitazioni che coinvolgono la popolazione intera e non lo 0.1% di intellettuali iraniani che abita nella capitale.Si pensi all’accordo sul nucleare. Nel 2015 una moltitudine di persone è scesa in piazza a festeggiare l’intesa con Obama. Poi, nel 2018 quando si è usciti dall’accordo con l’amministrazione Trump, la popolazione è di nuovo piombata nel buio.
Ecco, in termini pratici, io credo che non si possa parlare di diritti delle donne, di ingiustizie che indubbiamente accadono nelle prigioni iraniane, se prima non si risolve il riposizionamento dell’Iran a livello internazionale.
Le donne hanno pari diritti ed opportunità degli uomini in campo politico, nello studio e nel lavoro?
In via generale, le donne iraniane sono presenti nella sfera pubblica più di quello che normalmente si pensa.
Ci si può accorgere di questo viaggiando in Iran. Non è difficile incontrare una donna che guidi l’autobus o che piloti un aereo della compagnia nazionale IranAir. Come non è assurdo pensare alle donne iraniane nel ruolo di professoresse universitarie o di dottoresse.
Per ciò che concerne le pari opportunità non credo di aver gli strumenti per rispondere. Sicuramente bisogna ricordare che il Presidente Ahmadinejad, fra il 2004 ed il 2009, ha dovuto introdurre le quote azzurre universitarie. Un dato esplicativo riguardo l’istruzione delle donne iraniane.
Parte del problema è senza dubbio legato al forte controllo sociale sui rapporti fra uomini e donne. Certo, non è più come una volta, ma tutt’ora il matrimonio è una questione che coinvolge tutta la famiglia. E senza esagerare, si parla in media di 150 persone coinvolte sul tema. Questo fa sì che le donne, altamente istruite e letteralmente cresciute come fiori pronti a sbocciare, finiscano per diventare ornamento nelle case.
Ma non accade solo perché la società è patriarcale. La ragione è legata soprattutto alla disoccupazione giovanile che è ai suoi massimi storici. Il tema delle pari opportunità non è ancora maturato e parlando in termini pratici, un professore universitario guadagna sicuramente di più rispetto ad una professoressa, indipendentemente dal titolo e dalla bravura. Questo scoglio economico concede una corsia preferenziale agli uomini che per via della maggiore remunerazione vengono favoriti e agevolati dalle famiglie stesse.
In definitiva, bisogna tenere a mente che l’economia iraniana è al collasso e finché lo Stato non uscirà da questa crisi non potrà esserci un cambiamento. Sono le società con più benessere economico che possono garantire le pari opportunità. L’Iran è in ginocchio per via delle sanzioni, dell’inflazione del 300%, della pandemia. Non ci sarà nessun tipo di parità di genere che non passi attraverso una giustizia più ampia a livello internazionale.
Arianna Folgarelli
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Credo che questo richiamarsi alle radici per giustificare tutto, sia solo islamico, dato che tutto il mondo occidentale marcia verso la eradicazione di ogni radice. Non certo per libera scelta, ma perché la nuova realtà che si sta vivendo richiede meno vincoli intellettualistici e di costume, rispetto a quelli a cui si aggrappano le società, che hanno scelto di rimanere arretrati, forse per lo spavento che l’evoluzione moderna richiede anche a loro. Al massimo che si può concedere è che sono loro che devono risolversi i loro problemi senza interferenze esterne, ma nemmeno a venire a fare la predica in Occidente, sulla bontà e sull’eccellenza delle loro arretratezze. Intanto è un fatto che, mentre le società occidentali riescono ad essere al passo con i tempi ed a produrre ricchezza, quelle islamiche fanno parte del 3° e del 4° mondo. Essi possono avere mille ragioni nei confronti degli Occidentali, però allora hanno un solo obbligo: dimostrarci quali sono le loro eccellenze.